RADICE Giulio - Tratto da "La favolosa epopea dell'Unione Sportiva Milanese"
"Un talento sbocciato nel Milan, emerso con la Milanese e che sfiorì nel breve volgere di due stagioni: questo è stato Giulio Radice. Aveva il rossonero nel sangue e non appena si affacciò l’ipotesi di una possibile fusione tra gli scacchi e l’Inter con un atto d’impulso abbandonò il football: non voleva vestire i colori nerazzurri. Quando lo seppe Aldo Molinari, direttore sportivo dell’Unione Sportiva Milanese, andò su tutte le furie: pensava a un ingaggio da ritoccare o a una fidanzata che lo pretendeva tutto per sé, mai si sarebbe immaginato una motivazione per lui così banale. Si era nel gennaio del 1928, la squadra veleggiava nelle posizioni alte della classifica di Prima Divisione, in piena corsa per la promozione nella massima serie, Giulio era l’ala destra titolare, aveva segnato due gol e fornito diversi assist. Molinari non si capacitava, lo chiamò a rapporto in sede, ebbe con lui un duro confronto, gli spiegò che la fusione non era cosa certa e lui non poteva abbandonare la barca nel pieno della navigazione, ma Giulio fu irremovibile: sapeva che a fine anno gli scacchi sarebbero confluiti nell’Inter dando vita all’Ambrosiana e non sopportava l’idea di vedere il suo nome affiancato a quello del Biscione: gli ideali prima di ogni cosa! Così salutò la compagnia con largo anticipo e non calzò più quelle scarpette bullonate che, tanti anni prima, il papà gli aveva regalato. Figlio di Carlo e Virginia Sordelli, secondo dei fratelli, Giulio nacque a Milano il 25 aprile 1906, in un appartamento di corso Vercelli 76. Era il primo maschio della famiglia, in casa c’era già Maria, classe 1902, dopo di lui arrivarono Adele nel 1908, Costante nel 1911 e Giuseppina nel 1913. Giulio era l’orgoglio del padre, che se lo contemplava e se lo palleggiava sulle ginocchia la sera, quando ritornava tra la pace del focolare per godersi il meritato riposo dopo una giornata passata a gestire la sua piccola impresa di decoratore. A sei anni: a scuola! Un berretto di quelli che portava anche papà Carlo calzato sulle orecchie, una cartella nuova fiammante infilata a zainetto e via, con quel fare sbarazzino che hanno i piccoli quando sanno di accingersi a compiere qualche cosa d’importante. Cinque anni di elementari: i primi contatti con il mondo, i primi piccoli guai, le prime grandi gioie. Carlo, uomo dal fisico asciutto, non s’interessava per nulla di sport, né tantomeno il football lo appassionava, e il giovane Giulio crebbe in una casa dove si discuteva quasi sempre di lavoro. Il ragazzo studiò fin quasi ai vent’anni, le medie e poi l’istituto tecnico. Gli piacevano l’italiano e la geografia. A essere sinceri, studiava perché non aveva trovato niente di meglio da fare. In estate usciva di casa presto (la famiglia si era trasferita nel 1910 in un palazzo di via Marghera 14), girava per le boscaglie della periferia cittadina, si spingeva fino a Quarto Cagnino, il rione dell’estrema periferia dov’era nata mamma Virginia e dove i Sordelli avevano una cascina, a cercare nidi, e tornava sudato, sporco d’erba e sbucciato nelle gambe e nei calzoni per via del su e giù arboreo che si imponeva. Amava la natura ed era affascinato dai corsi d’acqua: spesso si fermava dalle parti del Naviglio a guardare i pescatori con canna fissa impegnati ad attirare cavedani, carpe, alborelle, rutili, triotti, scardole, tinche, pesci persici, lucci perca, pighi e carassi. Avrebbe voluto provare anche lui. Gli piaceva muoversi, non stava mai fermo, il pallone fu una conseguenza naturale. Cominciò, ma soltanto per breve tempo, così alla buona, in una società di “liberi”: era piuttosto bravo, veloce, con un bel tiro e quasi subito lo nominarono capitano della squadra. Ma non era in questo piccolo club che sperava di affermarsi; non era qui che si aspettava la gloria. Sentiva che poteva fare di più e che il suo avvenire doveva cercarlo in una formazione dove a gradi, compiendo dalla gavetta la sua strada, poteva coronare il suo sogno di giocatore. Cercava di vincere le partite da solo, era un po’ individualista, voleva dimostrare di saper soffrire, allontanando le voci di chi diceva che suo padre aveva i soldi e il calciatore lo poteva fare solo chi aveva fatto la fame da piccolo. Che poi, quali soldi? Suo papà aveva i soldini… Giulio era un atleta nervoso, ombroso e reattivo ai contrattempi, non voleva che i suoi famigliari venissero a vederlo sul campo. Le occasioni e le offerte di giocare non mancarono. Nel rione attorno a piazza Piemonte il suo nome era conosciuto. Monti, il segretario del Milan, si fece sotto dopo aver raccolto precise referenze su di lui e in un bar di via Orefici ottenne la sua firma sul cartellino..." (by Luca Dibenedetto)
Nella foto: Giulio Radice negli anni Sessanta |