Tratto da 1899. AC Milan. Le storie (Hoepli, 2019)
da pagina fb di Gino Cervi, 8 ottobre 2022
I 100 ANNI DEL MAESTRO NILS
Giovanni Rossetti, classe 1919, estremo difensore, per un decennio, dal 1939 al 1949, difende la porta del Milan negli anni della guerra, densi di passione ma poveri di successi. Rossetti, milanese, è molto amato dal pubblico: la leggenda vuole che porti con se un fiasco di vino, lo appoggi di fianco al palo e quando l’azione si svolge lontano nella metà campo lontana dalla sua porta, lo prenda per il collo e tiri delle generose sgollate. Smette di giocare alla fine del campionato 1948-49, quando l’allenatore Bigogno gli preferisce Efrem Milanese. Rimane fermo un anno, ma nella stagione 1950-51 viene richiamato in rosa a fare da chioccia al giovane Lorenzo Buffon, che ha dieci anni meno di lui. In segno di riconoscenza per la sua lunga carriera, Rossetti viene mandato in campo nell’ultima di campionato. Dalla domenica prima, il Milan è matematicamente campione d’Italia: non succedeva da 44 anni. Il 17 giugno 1951, contro la Roma, dunque la passerella finale e i festeggiamenti di San Siro toccano anche a lui per l’ultima sua partita in rossonero.
Stagione 1984-85, domenica, 20 gennaio 1985, stadio Friuli di Udine. Si gioca Udinese-Milan e i rossoneri sono sotto di un gol. Si è infortunato Sergio Battistini e nell’intervallo l’allenatore dice a un ragazzino di sedici anni e mezzo: «Tocca a te». Il ragazzino, che si chiama Paolo Maldini ed figlio di Cesare, il capitano della prima Coppa dei Campioni, prima deglutisce e poi si allaccia le scarpette. Maledizione! Sono troppo strette per i suoi piedi: il campo è ghiacciato e, prima di entrare, gliele ha prestate un compagno, perché, da giocatore degli allievi, quelle coi tacchetti lunghi non li ha ancora in dotazione. Ma alla fine va tutto bene: Paolino non sbaglia nulla, il Milan pareggia con Hateley e il suo esordio in serie A non è “segnato” da una sconfitta.
Un lungo filo rossonero - Che cosa unisce, a distanza di trentaquattro anni, Giovanni Rossetti a Cesare Maldini? C’è un trait-d’union, un lungo filo rosso, anzi rossonero: e questo filo ha il nome di Nils Liedholm. Il “giovane” Nils, nel giugno del 1951, aveva 29 anni ed è insieme a Rossetti, classe 1919, nel giorno della festa dello scudetto. Il “vecchio” Nils, nel febbraio 1985, aveva 62, quando da allenatore fece esordire Paolino Maldini.
Nils Liedholm tiene dunque insieme un lunghissimo arco di storia rossonera, dal suo esordio di giocatore, 11 settembre 1949, fino alla sua ultima partita in panchina, da allenatore, il 5 aprile 1987. Sono quasi quarant’anni. Non hanno la continuità cronologica dei 26 anni di Rivera, come giocatore e vicepresidente (1960-1986) e i 31 di presidenza di Berlusconi (1986-2017), ma sono il segno indelebile di un’appartenenza, di un’identità. Qualcosa di simile la si ritrova nelle carriere di altri tre mostri sacri rossoneri: di Franco Baresi (giocatore dal 1978 e ancora oggi “ambasciatore” rossonero in società) e dei due rappresentanti della “dinastia Maldini”, Cesare (giocatore dal 1954 fino all’ultima panchina, nel 2001) e Paolo (giocatore dal 1985 e dal 2019, direttore tecnico che ha riportato il Milan ai vertici del calcio nazionale dopo un decennio di vacche magrissime).
Le quattro stagioni di Nils - Le stagioni di Liedholm al Milan sono quattro: una lunga e rigogliosa primavera da calciatore (1949-61), e poi, da allenatore, e molto più brevi, un’estate (1964-66), un autunno (1977-79) e un inverno (1984-87) scandite a distanza una per decennio. Tra queste ultime – non è forse un caso per lui, che dall’inizio degli anni Settanta, nella tenuta di Villa Boemia, a Cuccaro Monferrato, è diventato un produttore di vini – quella più fruttifera è stata l’autunnale, quando si porterà in cantina la vittoriosa vendemmia dello scudetto della Stella.
Nell’estate del 1949, quando Liedholm arriva a Milano, lo svedese Nils Erik ha già quasi 27 anni ed è nel pieno della maturità calcistica ed atletica. Liedholm è un centrocampista mancino che unisce grande dinamicità, sopraffina tecnica di base e spiccata visione di gioco di squadra. Il curriculum, del resto, parla da sé. Dopo una prima trafila nelle giovanili del Valdemarsviks, la squadra della città della Svezia meridionale affacciata sul mar Baltico dove è nato nel 1922, è passato a vent’anni nelle file dello Sleipner di Norrköpping, squadra di seconda divisione che porta il nome del cavallo di Odino, il Giove della mitologia nordica. Quindi, senza cambiare città, ma salendo di categoria, si trasferisce nell’IFK, con cui vince due campionati nazionali (1946-47 e 1947-48). Il successo più importante è però quello ottenuto con la maglia della nazionale ai Giochi Olimpici di Londra, del 1948, quando la Svezia vince la medaglia d’oro battendo in finale per 3-1 la Jugoslavia. Liedholm è tra i trascinatori di quella formidabile squadra (4 vittorie, 19 gol fatti e appena 3 subiti). In finale, a segnare sono i due Gunnar: Gren (una doppietta) e Nordahl. Li ritroverà poco tempo dopo nel Milan, quando formerà il celeberrimo “Trio svedese”.
Nordahl, compagno di Liedholm nell’IFK Norköpping, approda a Milano nel gennaio del 1949; l’estate successiva lo seguono Nils e l’altro Gunnar. Liedholm è il più svedese dei tre. Se Nordahl sembra un bisonte e Gren un impiegato di concetto, Liedholm è l’atleta perfetto. Gianni Brera vede in lui uno degli esempi del suo ideale di calcio, e in special modo di centrocampista: corre con la resistenza e l’eleganza di un mezzofondista, sa impostare e accompagnare l’azione con ottima tecnica, non si sottrae ai contrasti e ai recuperi sugli avversari e, alla bisogna, batte a rete con un sinistro secco e preciso. Insieme a due connazionali, con cui si integra a meraviglia – Nordahl è un’irrefrenabile macchina da gol, Gren assicura geometrie ed equilibrio al centrocampo – Liedholm conquista il Milan e fonda il mito del Gre-No-Li. Il suo carisma è fatto di esemplare dedizione alla squadra e di impeccabile correttezza sportiva: nelle sue 359 partite in rossonero non è stato mai una volta ammonito dall’arbitro. Il suo contributo al “Risorgimento rossonero” nel corso delle dodici stagioni da giocatore può essere aridamente comprovato dai numeri: 359 partite ufficiali, come si è appena detto, e 89 reti; 4 scudetti (1950-51, 1954-55, 1956-57, 1958-59), due Coppe Latine (1951, 1956, preludio ai successi europei del decennio successivo).
Ma in realtà ha un significato e un valore ben più ampio e profondo se si prendono in considerazione le testimonianze di allenatori e giocatori, soprattutto quelli più giovani, che ne hanno conosciuto di persona le non comuni qualità di atleta, di calciatore e soprattutto di uomo-squadra. Sono i prerequisiti che lo faranno diventare il grande allenatore degli anni a venire.
Il leader di un nuovo Milan
Nelle sue dodici stagioni in rossonero, “traghetta” il Milan casciavitt, quello a vocazione operaia (palla lunga e pedalare) e a DNA spiccatamente lombardo-Rassa Piave, verso un nuovo Milan, quello che conquista la leadership in campo nazionale e che si prepara a diventare uno dei club più vincenti anche in Europa, avvalendosi di fuoriclasse e campioni di profilo internazionale. Da Bonomi e Annovazzi, Tognon e Burini, Silvestri e Renosto, Liedholm passa a scambiarsi la palla con Juan Alberto Schiaffino e Leschly Sörensen, Eduardo Ricagni e Tito Cucchiaroni, Ernesto Grillo e José Altafini; nonché a fare da scuola a giovani colleghi che hanno dieci e più anni meno di lui: Cesare Maldini e Checco Zagatti, Amleto Frignani, Carletto Galli e Gastone Bean, Sandro Salvadore e “Pantera” Danova, Mario Trebbi e Mario David. Il 14 maggio 1959, sul campo di allenamento di Linate, sotto una pioggia battente, insieme al Pepe Schiaffino, terrà a battesimo il quindicenne Gianni Rivera nel provino contro il Dopolavoro Rizzoli che determinerà l’acquisto del “Giovane Golden” dall’Alessandria. Infine, ci piace pensare che la sola sua presenza, in campo e negli spogliatoi, abbia fatto da imprinting ad alcuni giovani compagni che, qualche decennio dopo, diverranno a loro volta allenatori di successo: Gigi Radice, Osvaldo Bagnoli e Giovanni Trapattoni.
La lotta col Gipo - Abbiamo detto come Gianni Brera apprezzi pubblicamente le doti di calciatore di Liedholm. Tuttavia, sia quando ancora calca il campo ma soprattutto quando Nils poi diventa “maestro” di calcio, la loro idea di calcio non è la stessa. Brera era l’ideologo del difensivismo, del calcio “all’italiana”, che prima pensa a non subire e sa colpire negli spazi lasciati scoperti dalle squadre che attaccano. Liedholm invece da giocatore propendeva per un gioco all’attacco: il suo Milan, soprattutto nella prima metà degli anni Cinquanta, quando era guidato dal tecnico ungherese Lajos Czeizler si caratterizzava per una potenza d’attacco formidabile, ma era afflitto da una permeabilità difensiva che, proprio secondo Brera, costò a quella compagine molte inopinate sconfitte: ad esempio il clamoroso derby perso per 5-6 (6 novembre 1949), vera saga di errori difensivi. Quando assunse la direzione tecnica del Milan, Gipo Viani, inventore del “Vianema” – ovvero di un sistema riveduto e corretto in funzione difensiva – trovò proprio in Liedholm, e anche in Schiaffino, qualche oppositore tattico. I risultati diedero ragione al Gipo, ma non la sua arroganza: si dice che un giorno la sua aggressività, da manager-despota, che talvolta trascendeva le sfuriate a parole, si scontrò, non metaforicamente, nel prestanza atletica di Nils. Il povero Gipo, di tredici anni più vecchio, si trovò a terra schienato da una mossa di lotta libera. Negli anni, tuttavia, l’intelligenza calcistica di Liedholm lo portò ad arretrare progressivamente il suo raggio d’azione, fino a diventare una sorta di schermo aggiunto alla difesa.
Da allenatore, poi, pur predicando un gioco di spiccato possesso palla – «fin che il pallone ce l’abbiamo noi tra i piedi, è difficile che gli altri riescano a farci gol», diceva in sostanza, però con la sua inconfondibile italiano cantilenante – riservò sempre una particolare attenzione per l’organizzazione difensiva della squadra. E, come vedremo, il formidabile pacchetto arretrato di uomini che faranno la fortuna del Milan degli Invincibili, targato Arrigo Sacchi, nasce proprio sotto l’occhio esperto del Barone.
La beffa della rimonta del 1965 - Liedholm smette di giocare al termine della stagione 1960-61, quando viene immortalato nella copertina del primo album Calciatori Panini. Entra nello staff tecnico di Nereo Rocco. I due sono caratterialmente diversissimi ma li accomuna la capacità di costruire e tenere assieme un gruppo, e soprattutto il ricorso all’ironia per sdrammatizzare le tensioni. Nel marzo del 1964 fa il suo esordio in panchina: viene infatti chiamato da Viani per sostituire Luis Carniglia, l’allenatore argentino che aveva preso il posto di Rocco, passato al Torino l’indomani della vittoria di Wembley in Coppa dei Campioni. La squadra arriva terza, dietro a Bologna e Inter che si giocano la vittoria allo spareggio (che sarà rossoblù). L’anno seguente si apre con la polemica tra Viani e Altafini, col brasiliano che se ne torna in Brasile. Liedholm riesce a ottenere lo stesso ottimi risultati: la squadra, dopo l’addio di Dino Sani, è definitivamente affidata alla regia di Rivera, intorno al quale giostrano Trapattoni, Lodetti, Pelagalli. In attacco, ad Amarildo Nils affianca due giovani: Giuliano Fortunato e Paolo Ferrario, detto “Ciapina”, quest’ultimo prodotto del vivaio rossonero. Ferrario nel girone d’andata segna 9 gol, quasi tutti di rapina. Dopo il girone di andata, la squadra ha un ampio margine di vantaggio sulla seconda e sembra avviata al successo finale. Ma poi, a febbraio, Altafini, di ritorno dal Brasile dopo un accomodamento con presidente Felicino Riva, viene reintegrato in rosa e messo in campo. E il meccanismo s’inceppa. A fine marzo, il tracollo nel derby (2-5) mette le ali ai cugini che concludono a maggio un clamoroso, quanto luttuoso sorpasso.
L’anno seguente Liedholm è ancora alla guida tecnica, ma senza Gipo Viani come supervisore. Pare potersela ancora giocare con le migliori, ma a dicembre il primo segnale di una stagione che sarà ancora più sfortunata della precedente: a Bologna, un brutto infortunio toglie dai giochi (e non soltanto per quel campionato) l’ala Bruno Mora. Mercoledì 2 febbraio 1966 Milan-Lazio, che già era stata sospesa per nebbia domenica 23 gennaio, al 54’, viene di nuovo interrotta per la stessa ragione meteorologica al 68’, quando però i rossoneri sono in vantaggio per 2-0. Il terzo recupero si gioca mercoledì 9 marzo: questa volta a fermare il Milan non è il nebbione ma proprio la Lazio, che passa per 2-0. È la terza sconfitta consecutiva, dopo quelle contro Napoli e Fiorentina. Per di più, proprio in occasione della terza partita coi biancazzurri, in panchina non siede più Liedholm, che ha scoperto di essere affetto da una forma di epatite e deve lasciare l’incarico, sostituito dal secondo, Giovanni Cattozzo. La squadra si squaglia a primavera e nelle restanti dieci partite, collezionerà 5 sconfitte, 4 pareggi e una sola vittoria, chiudendo 7a in classifica. A fine stagione, Liedholm, per fortuna guarito, non è però più l’allenatore del Milan.
Sotto una buona Stella - Nils e il Diavolo si ritrovano undici anni dopo. È il 1977 e lo richiama il neopresidente Felice Colombo. È una buona stagione, con una bella partenza e qualche battuta d’arresto tra inverno e primavera, che fa chiudere la squadra al 4° posto, con relativo piazzamento in zona Uefa. Ma l’accadimento più importante è l’esordio, il 23 aprile 1978, di Franco Baresi, che due settimane dopo avrebbe compiuto 18 anni. Lo scudetto, il decimo, quello della Stella, sfiorato per lo meno un paio di volte nei dieci anni precedenti (clamorosa la Fatal Verona del 1973), viene conquistato nella stagione seguente. E proprio Liedholm ne è in gran parte l’artefice. Il “Barone” allestisce una compagine ben armonizzata tra gli ultimi fuochi di vecchi campioni (Rivera e Albertosi) e giovani di belle speranze (Collovati, De Vecchi e il “piscinin” Baresi, che si conquista in fretta i galloni di titolare al centro della difesa), ma soprattutto ottenendo il massimo da giocatori che sotto la sua guida esprimono il meglio. È il caso di Albertino Bigon, padovano, arrivato al Milan con Rocco, ma che nella stagione dello scudetto, a trentun’anni, trova la sua stagione migliore. Liedholm ne sa sfruttare l’eclettismo a centrocampo e in fase realizzativa (in quel campionato sarà il capocannoniere della squadra con 12 gol). O come Aldo Maldera, terzino sinistro, che negli schemi offensivi di Liedholm è chiamato a frequenti incursioni in area avversaria che fruttano, di mancino o di testa, ben 9 reti. L’attacco non ha un finalizzatore, anzi: il centravanti, Stefano Chiodi, oggi verrebbe definito un centravanti “funzionale” al gioco di Liedholm, mentre all’epoca viene ricordato soprattutto per rievocare lo spettro di Walter Calloni e per aver realizzato soltanto un gol su azione dei 7 segnati in campionato (gli altri tutti su calcio di rigore).
L’ultima stagione rossonera - Come già fece Rocco dopo Wembley, Liedholm lascia dopo la Stella e se ne torna a Roma, dove sulla sponda giallorossa ha già seminato buon calcio e dove, negli anni a venire, farà ancora di meglio. Ma c’è spazio per un ultimo periodo in rossonero, che durerà poco meno di tre stagioni (1984-87). Durante il secondo anno, Nils vive in diretta, con il solito saggio, olimpico distacco il tormentato passaggio proprietario tra Giussy Farina, inseguito dai debiti e dai mandati di cattura, e Silvio Berlusconi che cala dal cielo in elicottero. Quando arriva, nell’estate del 1984, Farina gli mette a disposizione una buona squadra, con nuovi innesti interessanti. Da Roma, il “Barone” porta con sé un fidatissimo alfiere, Agostino Di Bartolomei; da Udine, Pietro Paolo Virdis; dal Torino, il portiere Terraneo e, due nuovi stranieri: gli inglesi Ray Wilkins e Mark Hateley. A gennaio del 1986, Liedholm fa esordire un giovanissimo Paolo Maldini. La squadra arriva 5a. L’anno successivo, travagliatissimo a partire da dicembre per la convulsa e incerta transizione societaria, sconta un finale in affanno: dal momento dell’insediamento di Berlusconi alla presidenza, 24 marzo 1986, la squadra, a 4 giornate dal termine del campionato, infila un filotto di tre sconfitte e un pareggio e chiude al 7° posto.
Nonostante la ricca campagna acquisti condotta dalla nuova società, anche la stagione 1986-87 non regala molte soddisfazioni. Forte delle sue pregresse esperienze di allenatore… del dopolavoro dell’Edilnord, il presidente inaugura il suo repertorio di critiche sulla disposizione tecnico-tattica della squadra. Il vecchio maestro che risponde con le ben note armi dell’ironia: «Presidente ha rasgione. Lui stato alenatore assiendale». Il rapporto si deteriora nel corso dell’anno dopo l’eliminazione dalla Coppa Italia, per mano del Parma di Arrigo Sacchi, che molti danno come il tecnico già scelto da Berlusconi per la stagione successiva. L’indomani della sconfitta interna contro la Sampdoria (29 marzo 1987, 0-2), la dirigenza rossonera, l’amministratore delegato Adriano Galliani in testa, smentisce ai giornali ogni rottura col tecnico svedese. Ma è il 1° aprile. Domenica 5 il Milan cade al Partenio contro l’Avellino (1-2) e Liedholm viene sollevato dall’incarico: al suo posto subentra Fabio Capello.
La lunga storia di Nils Liedholm, da Valdemarsvik, iniziata nel settembre del 1949, termina come lui stesso non avrebbe mai pensato, né tantomeno voluto. Spesso ci si dimentica di far notare che il Milan di Sacchi, giustamente celebrato per la rivoluzionaria visione di gioco del suo ispiratore e per l’apporto imprescindibile del Trio olandese – a rinverdire i fasti di quello svedese di cui proprio Nils faceva parte – , fonda le sue basi proprio su un formidabile assetto difensivo assemblato e soprattutto affinato da Liedholm. Se è manifesto il merito di aver lanciato nel calcio dei grandi Paolo Maldini e, otto anni prima, Franco Baresi, è altrettanto evidente l’eccezionale evoluzione che ha trasformato Mauro Tassotti da rude difensore a uno dei migliori e più tecnici terzini moderni. A completare il reparto contribuiscono due centrali come Filippo Galli e un altro esordiente, Alessandro Costacurta, che, pur non dotati di naturale talento calcistico, vi sopperiscono con un’intelligenza di uomini e di atleti sicuramente superiore alla media.
Patrimonio del calcio italiano - Liedholm merita di essere annoverato tra le figure “patrimonio del calcio italiano”, e non solo rossonero. Dal 1966 al 1971 ha condotto alla promozione in serie A il Verona e il Varese. Per due volte (entrambe con la Roma, nel 1975 e nel 1983) ha vinto il “Seminatore d’oro”, il premio che veniva conferito (dal 1955 al 1990) al miglior allenatore della stagione. Oltre a Baresi e Maldini, sotto la sua guida tecnica hanno esordito in serie A altri campioni come Antognoni, alla Fiorentina (1972), Giuseppe Giannini e Angelo Peruzzi, entrambi alla Roma (rispettivamente 1981 e 1987); ha valorizzato talenti come Di Bartolomei e Carlo Ancelotti (trasformata da mezzala a mediano); sempre alla Roma, suo laboratorio preferito (è qui, che a inizio anni Ottanta, decise di applicare con successo la zona, anzi la «ssona» come diceva lui), ha cambiato posizione in campo ai mancini Bruno Conti e a Sebastiano Nela, alla Roma, così che potessero «vedere il mondo da un’altra prospettiva».
Insomma, davvero Nils Liedholm è stato davvero un lungo e imprescindibile pezzo di storia del calcio italiano. Riflettiamo su quest’ultima suggestione: quando arrivò al Milan, nel 1949, con lui giocava, oltre al già citato Giovanni Rossetti, il portiere col fiasco, anche Enrico Aldo Candiani, classe 1918. Entrambi erano stati compagni di squadra di Giuseppe Meazza: Candiani nell’Ambrosiana-Inter di fine anni Trenta, Rossetti quando il Peppin approdò, per due anni, 1940-42, nella sponda opposta, al Milan. L’ultimissima esperienza in panchina di Nils Liedholm fu quando, nella primavera del 1997, venne chiamato dalla Roma a sostituire l’esonerato Carlos Bianchi fino al termine dalla stagione. In quella Roma era già titolare fisso il ventenne Totti. Liedholm, con la sua lunghissima parabola, è come se tendesse la mano a due straordinari, e per molti versi assai simili, campioni della storia nazionale: Peppino Meazza e Francesco Totti.
Il Barone parlante - Lo chiamavano “Barone”. Era un modo per indicarne la distinzione e l’eleganza non convenzionale dei suoi modi. Pare che il soprannome sia nato negli anni romani, quelli della metà degli anni Settanta. A suo dire, quando giocava e allenava al Milan era un grado feudale più sotto: solo il “Conte”. Dopo cinquant’anni di Italia, parlava ancora un italiano zoppicante, con declinazioni e concordanze approssimative. Ma forse era più un vezzo pigro. Il suo logos correva chilometri più veloce degli altri che lo intervistavano. Spesso dialogare con lui era spiazzante. Si sa che l’uso dell’ironia nel calcio, allora come adesso, è merce rara. In un intervista una volta disse che aveva una qualità: quella non dire mai bugie; e allo stesso tempo un difetto: quello di non riuscire a farlo credere. L’ironia, e l’autoironia, erano suoi strumenti quotidiani di lavoro. Era solito enunciare memorabili iperboli con una flemma e un’imperturbabilità che non induceva a repliche: «Una partita ho tocato solo tre volte palla: ma ogni volta ho tenuta per 20 minuti». E paradossi, come quando rispondeva a chi gli domandava come aveva riorganizzato la squadra dopo l’espulsione di un suo uomo: «Semplice: in deci se ioca melio». Azzardava paragoni improbabili tra calciatori del passato e suoi giocatori: disse di Francesco Mandressi, giovane riserva del Milan dello scudetto, che gli ricordava il Johann Rensenbrink dell’Ajax di Cruijff e di Roberto Scarnecchia, con lui alla Roma e poi al Milan, che era simile a Ivica Suriak, geniale campione della Jugoslavia. Nella sua tavola comparativa, che sospettiamo avesse anche un preciso uso motivazionale, Nela diventava Cervato, Marangon Masopust, Valigi Giresse. Di questa sua arma segreta, e misconosciuta nel mondo del pallone, così scriveva Giulio Nascimbeni (Corriere della Sera, 8 ottobre 1987): «Parole come battaglia, dramma, assedio, vigilia d'armi, variamente tolte al linguaggio bellico o a quello teatrale per introdurle nelle cronache sportive, non sfiorano nemmeno i suoi pensieri. Con il getto d'acqua d'una battuta, Liedholm spegne bollori e polemiche. E cioè è tanto più sorprendente in un Paese come il nostro così restio ad accettare e apprezzare l'ironia, al punto che Leo Longanesi proponeva di usare, per le frasi ironiche, uno speciale carattere tipografico per renderle subito riconoscibili».
Gli angoli di Liedholm - L’ultimo Liedholm era un saggio e sereno signore che si è ritirato a fare il vino sulle colline del Monferrato, a Cuccaro. Aveva avviato l’attività fin dai primi anni Settanta e poi l’aveva trasmessa al figlio Carlo, che la continua oggi con dedizione e successo. Nel 1968 aveva sposato, lui “Conte” (non ancora “Barone”) una vera contessa piemontese, Maria Lucia Gabotto di San Giovanni. Insieme facevano una coppia da cinematografo, anche in età assai avanzata. Facevano ginnastica tutti i giorni perché, quando l’aveva conosciuto, una delle prime cose che Nils le disse fu: «Noi svedesi abbiamo inventato la ginnastica».
Aveva già ottant’anni quando confessava che, d’estate, quando tornava a Valdemarsvik, continuava a giocare a calcio coi suoi vecchi amici, o almeno quelli che erano rimasti, due o tre. E giocavano a fare gol calciando dalla bandierina del calcio d’angolo. In una delle ultime interviste rilasciate a Luigi Garlando, della Gazzetta dello sport, si diceva soddisfatto: «L' ultima volta ho fatto due gol da destra e due da sinistra».
Oggi Nils Liedholm avrebbe compiuto 100 anni. Era nato a Valdemarsvik l'8 ottobre 1922.
Nella foto sotto, la mia mamma, la Rosetta, sorride in una foto col Barone al ritiro di Brunico nell’estate del 1984.
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