Dal sito p70news
IL NAPOLI DI VINICIO, CLERICI E SAVOLDI
23 aprile 2003 - di Mario Amitrano
Luis Vinicio arrivò a Napoli, come allenatore, nella stagione 1973/74. Reduce dai successi da calciatore con la stessa maglia, per i quali era stato soprannominato "O' lione", fu subito considerato come la panacea per risolvere gli annosi problemi della squadra partenopea, che non era mai riuscita a vincere il sospirato scudetto. Il Napoli giocava a zona, precursore di quello che avrebbe poi fatto la Roma di Liedholm circa 10 anni dopo, e unanimemente veniva considerata la squadra che giocava il calcio più bello a vedersi. In pratica, tutti avanti e tutti indietro, a seconda dei casi e delle necessità. Il primo Napoli di Vinicio, comunque, arrivò terzo.
I gol di Sergio Clerici, brasiliano soprannominato "Gringo", non bastarono per il salto di qualità, ma il pubblico comunque apprezzava la squadra, dimostrando un affetto che non si riscontrava da nessun'altra parte in tutt' Italia. Una stagione incredibile e sfortunata fu però quella 1974/75. Il Napoli aveva in porta "Gedeone" Carmignani, venuto a Napoli dopo un breve soggiorno alla Juventus, Bruscolotti e la Palma terzini. Tarcisio Burgnich era venuto dall'Inter che aveva 34 anni perchè a Milano lo consideravano finito. All' ombra del Vesuvio, invece, rinacque, rappresentando un baluardo spesso insormontabile per gli attaccanti avversari. Anche Vavassori, l'attuale allenatore dell'Atalanta, era rinato, ma da un bruttissimo infortunio. Libero giocava "Birillo" Orlandini. Qualcuno diceva che si era montato la testa perchè, convocato in Nazionale dalla coppia Bernardini-Bearzot, aveva marcato (male) il mitico Johan Crujiff. Ala destra era Peppiniello Massa, napoletano emigrato all'Inter e poi rientrato in patria. "Totonno" Juliano era il numero otto per eccellenza. In città, una specie di divinità. Era pur sempre vice-campione del mondo, avendo giocato con l'Italia che in Messico, nel 1970, aveva ceduto solo di fronte al Brasile di Pelè, in finale. Il numero dieci lo portava "Ciccio" Esposito, altro napoletano, pure lui con una piccolissima presenza in Nazionale, mentre la maglia numero undici era appannaggio di "Long John Guitar" Giorgio Braglia, una specie di Gesù Cristo (solo per l'aspetto fisico, per carità). Era l'anno buono, quello. Se non fosse stato per la Juventus, però. Un testa a testa entusiasmante, con alcune giornate storiche, indimenticabili. Al San Paolo era ogni domenica una festa. Colorata e passionale. Umile e superba. Insomma, quelle che erano le caratteristiche della gente, si ritrovavano ogni settimana sugli spalti dello stadio. Erano domeniche di riti incancellabili. Il caffè "Borghetti" lo vendevano in bottigliette di plastica circolari. Alla fine della partita, a terra ne rimanevano tappeti. E poi c'erano i cuscini. Quelli li compravano i "signori", quelli che non si volevano sporcare il pantalone buono della domenica. E poi, ancora, il rito della pipì "in faccia al muro", come si diceva. I gabinetti o non c'erano o nessuno li frequentava. Fare pipì così, all'aperto, vicino alle mura dello stadio, rigorosamente all'interno, senza vergogna o paura di oltraggiare qualsivoglia pudore, era una sorta di liberazione per tutti. I più piccoli, mano nella mano dei padri, guardavano quella folla di gente quasi con invidia, perchè a loro non era permesso fare pipì come facevano i grandi. Altro appuntamento fisso era con la "voce" del San Paolo. L'altoparlante è stato sempre una spina nel fianco dei tifosi: non funzionava mai bene. Quello che si sentiva era come se si dovesse solamente intuire. I nomi dei calciatori, scanditi uno per uno con enfasi e passione, erano seguiti da lunghi applausi e ovazioni da brividi. C'era sempre qualcuno che, a seconda del momento, di applausi ne prendeva di più, e lo speaker doveva fermare la lettura. Alla fine, quando pure i giocatori della panchina erano stati nominati, scattava l'applauso liberatorio, quello più fragoroso, che faceva venire i brividi. Ed erano balli, danze, canti. Lo stadio tremava, e con esso tutti i palazzi attorno. Quando le squadre entravano in campo era un tripudio di bandiere, fumogeni, fotografie, urla, incitazioni, cori. Una festa, dicevamo. Rovinata, ma solo per pochi secondi, qualche volta dallo speaker che al grido di "attenzione, attenzione" comunicava che il signor Tal dei Tali era atteso urgentemente a questo o quel varco. Non c'erano i cellulari, all'epoca, ma in quel modo si poteva sempre rintracciare, quasi come se però si cercasse un ago in un pagliaio, il parente o l'amico di turno. Comunque, dicevamo dell'anno 1974/75 e del testa a testa con la Juventus. La Juventus di Zoff che a Napoli era diventato grande e da Napoli se n'era andato qualche anno prima lasciando un mare di rimpianti tra i tifosi. Il Napoli quell'anno era davvero forte, fortissimo. Pure la Juventus, però. E fu quello il peccato per gli azzurri. Azzurri che furono capaci di segnare anche 7 gol in una sola partita (7-1 al San Paolo con la Ternana, primo gol di La Palma al 13° con un tiro quasi da centrocampo che beffò il portiere Nardin, pure lui ex). Ma azzurri che furono capaci pure di prenderne 6 di gol, al San Paolo, proprio dalla Juventus, in una partita che fece infuriare i tifosi con l'arbitro Gino Menicucci. Ne fece le spese Binzaghi, il guardalinee, colpito da una bottiglia in testa e costretto a uscire sanguinante dallo stadio. La partita delle partite fu però a Torino, nel girone di ritorno. Fu Josè Altafini, "core 'ngrato", a rovinare la festa al Napoli, il suo ex Napoli. Nella città partenopea aveva fatto coppia nientemeno che con Sivori. Poi, l'aveva voluto la Juventus di Agnelli. Lo pagavano, si diceva, a cottimo. Una specie di gettone di presenza per ogni minuto giocato e, perchè no, per ogni gol. Mise la gamba, così, per vedere che succedeva. Il pallone gli rimbalzò addosso e finì dietro Carmignani. Era il 2 a 1. Si videro scene di sconforto e disperazione, ma la frittata era fatta.
Vinicio non riuscì più a riprendere la Juventus, che vinse il campionato a 45 punti, con due punti di vantaggio sul Napoli, che dovette accontentarsi di qualche record più...terra terra, anche se di prestigio, come quello dell'attacco più prolifico con 50 gol segnati. L'anno dopo occorreva il salto di qualità. Un salto serio, però, non fumo negli occhi. Ferlaino, il presidente più presidente che il Napoli, nel bene e nel male, abbia mai avuto, ci pensò a lungo. Aveva messo gli occhi su Gigi Riva. "Rombo di tuono" era sul finire della carriera, ma a Napoli lo avrebbero accolto comunque come un Dio. Non se ne fece niente. Poi, alla fine del calcio-mercato, il colpaccio del secolo (prima che arrivasse Maradona, ovvio). Nel Bologna giocava Savoldi. Giuseppe Savoldi, da Gorlago, in provincia di Bergamo. Goleador puro, fortissimo nei colpi di testa, specialista dei calci di rigore. Insomma, una forza della natura. Sondato il terreno, Ferlaino fiutò bene. E fu scandalo. 2 miliardi lo pagò per portarlo a Napoli. A dire il vero, di soldi ne sborsò 1 miliardo e 400 milioni. Al Bologna dovette dare però pure la comproprietà di Clerici e Rampanti. Ne parlarono i giornali, le televisioni. Scrissero le penne più importanti del Paese. Napoli doveva fare i conti con l'immondizia ammassata ai lati delle strade, con la disoccupazione, con la criminalità, la disoccupazione e tanti altri problemi, e che ti faceva Ferlaino? Spendeva due miliardi per un giocatore. Savoldi venne subito soprannominato "Beppe-Gol". Sulla fiducia, è ovvio. A Napoli i soprannomi ai calciatori erano un obbligo, allora più che oggi. Chissà, forse c'era più fantasia anche nei tifosi. Le curve erano i settori dello stadio più folckloristici, più passionali. "Palummella" era della curva B. Zompa e vola dicevano di Gennaro Montuori. Il capo dei tifosi. Guardava la partita negli occhi dei suoi sudditi, spalle al campo, e così li incitava. Ogni domenica un canto nuovo, per la gioia anche dei calciatori che poi quelle canzoncine se le cantavano tra di loro. Insomma, Savoldi. I napoletani corsero ad abbonarsi per paura di restare fuori dallo stadio senza poterlo vedere. Già nelle partite del precampionato si registrò il tutto esaurito ovunque giocasse il Napoli. L'esordio in campionato fu da brividi, ma cominciarono le sofferenze. Al San Paolo scese il Como. Pioveva, il cielo era plumbeo. L'arbitro assegnò un rigore al Napoli. Sul pallone, ovviamente, Savoldi. Tiro e gol. Savoldi, però, quando calciava i rigori, aveva una particolarità. A metà rincorsa, sembrava fermarsi. Lo faceva per studiare le mosse del portiere e spiazzarlo. Lo fece pure quella volta. L'arbitro, prevenuto, gli fece ribattere il rigore. E lui sbagliò. Aveva già sbagliato un paio di rigori nelle partitelle estive, ma nessuno ci aveva dato peso. E meno male che pochi minuti prima che la partita finisse il Napoli ne ebbe un altro di rigore. Sul dischetto, ancora lui. E stavolta il gol arriva. Per la gioia dei tifosi. Ma la stagione 1975/76 non fu quella che ci si aspettava. Neppure Savoldi fece fare il salto di qualità. Giocava in maniera diversa da Clerici. Il "Gringo" giocava con la squadra. Savoldi voleva che la squadra giocasse per lui. Le occasioni da gol, quindi, erano di meno rispetto all'anno precedente. Tutto il gioco di Vinicio ne risentì. "O' Lione" se ne accorse e non se la sentì di proseguire la stagione.
Senza che nessuno se lo aspettasse, l'allenatore fece le valigie e lasciò la squadra in mano al suo vice, il buon Alberto Delfrati, dai capelli eternamente bianchi. In un ritorno di fiamma, gli azzurri andarono avanti perlomeno in Coppa Italia, e riuscirono a sconfiggere in finale, per 4 a 0, il Verona. In campionato, invece, sconfitte inaspettate e tonfi inattesi fecero svanire il sogno dello scudetto. Dovranno passare ancora altri dieci anni, da allora, per vedere il triangolino tricolore a Napoli. Ma quella è un'altra storia.
|