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20.02.1979 - 20.02.2009
Trentennale della scomparsa dell'indimenticabile "Paròn" Nereo Rocco




Nereo Rocco con Cesare Maldini




dal sito www.repubblica.it
19 febbraio 2009 - di Gianni Mura

La storia
IN PANCHINA CON ROCCO IL CALCIO ERA UN ROMANZO
Trent'anni fa moriva il Paròn, maestro di un'epoca. Il catenaccio, il Milan, i trionfi. E tre allievi diventati ct: Bearzot, il Trap e Maldini. A Trieste allenò da autodidatta: arrivò secondo, dietro il Grande Torino

Cosa è rimasto di Nereo Rocco a trent'anni dalla morte? Morì a Trieste alle 11.47 di un 20 febbraio luminoso e freddo. "Damme el tempo", le ultime parole al figlio Tito, le stesse che aveva detto tante volte al suo secondo, in panchina, da Bergamasco a Maldini a Mazzoni, quando le partite erano agli sgoccioli. "Chi ga perdù el balòn?" chiedeva a Bergamasco. Sempre la stessa risposta: "Giovanìn". Allora Rocco si alzava e con le mani a imbuto urlava verso il centro del campo: "Giovanìn, va in mona". Cinema ad uso interno. I Giovanìn erano tre: Trapattoni, Lodetti e Rivera. L'imprecazione non sfiorava nessuno dei tre, finiva in mezzo al campo come un aeroplanino di carta.
Qualcosa è rimasto, che non può essere solo nostalgia. Anche se è forte la tentazione di dire che è cambiato tutto, non sempre in meglio. E' cambiato il calcio nel suo interno (allenatori, giocatori) e nel suo contorno. Chi, come me e altri della mia generazione, ha avuto la fortuna di conoscere Rocco oltre la superficie, non riesce proprio a immaginarselo mentre risponde alla D'Amico pochi minuti dopo la fine della partita, o forse sì ma con gravi rischi per il bon ton. Come quando, nei camerini della Rai, prima della Domenica sportiva provarono a truccarlo e lui espose succintamente un uso alternativo per il pennello. Ma erano altri tempi, i calciatori erano soggetti a vincolo, le tv non facevano pressing e negli spogliatoi dopo un po' entravano solo i giornalisti col taccuino in mano.
Un po' era, normalmente, quel quarto d'ora necessario a una doccia (o un tuffo nella grande vasca collettiva, che c'era a San Siro) e allo smaltimento delle tensioni.
Se si parla del calcio degli anni '60 bisogna ricordare le tante strade non asfaltate e le auto di Formula Uno che non arrivavano ai 200 orari, dice Trapattoni. Lo dice in un libro di Gigi Garanzini ("Nereo Rocco", ed. Mondadori) uscito martedì. E' una versione ampliata e riveduta, a dieci anni di distanza, con tante testimonianze e tantissimi aneddoti. Al di là dell'amicizia (con Garanzini, coi figli di Rocco in senso stretto, con molti "figli di Rocco" in senso calcistico) ne consiglio la lettura. E' un viaggio nella memoria, e adesso già questo si può dire: di Rocco resta il ricordo e la voglia di ricordarlo. Mi correggo: è un viaggio nella memoria per chi ha una certa età, ma per chi ha meno di trent'anni è un viaggio nell'ignoto, o nella fantascienza. Eppure sì, è esistito un calcio che ignorava l'aggressione dello spazio e le ripartenze, in cui i calciatori di casa la domenica andavano a piedi allo stadio (a Padova).
Aneddoto: la prima volta che con l'Inter Angelillo giocò a Padova, chiese a un compagno: come mai qui hanno dei raccattapalle uomini e non bambini? I presunti raccattapalle erano Azzini e Scagnellato, con le tute sformate e piene di rattoppi, di calzettoni in dotazione solo un paio e doveva durare dal martedì alla domenica. Per la cronaca, quel giorno vinse 3-0 il Padova. Scagnellato faceva il tornitore, a 30mila lire mensili. Il Padova gliene offrì 35mila e diventò terzino e spauracchio degli attaccanti. Si comunicava tutte le domeniche ma in campo non porgeva l'altra guancia.
Padova, i poareti, i miei manzi, diceva Rocco. Fu la sua rampa di lancio. A forza di parlare dell'allenatore, si tende a dimenticare che fu anche calciatore, buono ma non eccelso. Solo mancino, gran tiratore da fuori. Mezzala, si diceva allora. Esordì a 17 anni nella Triestina, dove giocò 232 partite in A segnando 66 gol, altri 7 in 52 presenze col Napoli. A Padova, in B, 47 gare e 15 gol. Bastava una presenza in azzurro per avere automaticamente il tesserino da allenatore. Rocco, primo triestino in Nazionale (Italia-Grecia 4-0, nel '34 a San Siro) giocò solo un tempo, lo sostituì Giovanni Ferrari, ma bastò ugualmente. Nel campionato '47-'48 era lui, un autodidatta, a guidare la Triestina. Primo arrivò il grande Torino, seconda la Triestina alla pari con Juve e Milan. Rocco impiegò in tutto 15 giocatori.
A distanza di trent'anni, per tornare alla domanda iniziale, resta un grosso equivoco e riguarda il catenaccio. Non tanto l'invenzione (Viani? Rappan? Ottavio Barbieri?) che Rocco non rivendicava, dichiarando di aver rispolverato un mezzosistema attuato da Banas, quanto l'adesione filosofica. In assenza di teatrini, processi e baruffe televisive, le polemiche tra difensivisti e offensivisti si svolgevano sui giornali. Ossia: Brera e Zanetti da una parte, Palumbo e Ghirelli dall'altra. Normale che, in una squadra di provincia, si pensasse anzitutto alla difesa. Coi numerini di oggi, Rocco sarebbe riconducibile a un 1-3-3-3, dove l'1 è il libero dietro alla difesa. Libero che peraltro schieravano tutte le squadre, anche quelle di Fulvio Bernardini, considerato (non a torto) il profeta dei piedi buoni. Lo stesso Bernardini che nello spareggio-scudetto, per mettere nel sacco Herrera, diede al terzino Capra la maglia numero 11.
Catenacciaro era diventato un insulto. In trasferta il Padova era accolto malissimo (insulti, sputi, lanci di monetine), tanto che Rocco pensò di cambiare modulo, ma il capitano Scagnellato, a nome di tutti, gli disse di no, così arrivavano i risultati, arrivavano gli schéi (il premio-partita si divideva già negli spogliatoi) e così bisognava continuare. Non che a Padova il clima fosse tranquillo, per gli altri. Come nelle vignette di Altan, col pubblico a meno di tre metri, chi batteva una rimessa laterale o un corner doveva stare molto attento a schivare le punte degli ombrelli. In realtà, come le case si costruiscono dalle fondamenta, Rocco costruiva la squadra sulla difesa, gente robusta, un po' cinica, dotata di calcio lungo, ma in attacco aveva due punte (il giovane Hamrin, poi riciclato al Milan da anziano) o Mariani, e Brighenti, questi due finiti in Nazionale contro l'Inghilterra (l'Inghilterra, mica paglia, direbbe un mio amico). Più un trequartista elegantissimo, Rosa. E questa sua tendenza a occupare tutto il fronte d'attacco (due ali e un centravanti) più un trequartista si manifesta chiaramente nel Milan. Con Rivera, troviamo Mora-Altafini-Barison e, nella seconda esperienza, Hamrin-Sormani-Prati. In mezzo c'è il Torino di Meroni-Combin-Simoni, più un centrocampista di costruzione come Moschino. Secondo me c'è più catenaccio oggi in un 4-5-1 e in un 4-4-2 con due terzini all'ala che nelle squadre di Rocco. Solo che allora si difendeva più basso (scusate il neologismo). Ma se in un derby Rocco o uno dei suoi figli, il Trap, avesse chiuso la partita con ben 6 difensori di ruolo, come ha fatto domenica Mourinho, e per giunta rischiando il pareggio, sai che fischiate.
Per i meno anziani, va sottolineato che si parla di un tempo in cui esistevano le ali, e una delle più leggere, Hamrin, non a caso soprannominato Uccellino, segnò 190 gol in A. Il possesso palla non lo calcolava nessuno, di un tiro molto forte si diceva "che cannonata" mentre oggi si sa che il pallone viaggiava a 143 orari, non esistevano le discoteche (al massimo i night o i bar che tiravano giù la saracinesca e dentro si giocava a poker fino all'alba). Nel libro di Garanzini Schnellinger dice: "Mi ricordo di Rocco ogni volta che vedo Mourinho prendere appunti in panchina". Allora, non usava. "Mi te digo cossa far, ma dopo in campo te ghe va ti" diceva Rocco ai giocatori. E nell'intervallo, se qualcosa andava storto: "Testa de gran casso ti e anca quel che t'ha messo in squadra". In realtà, qualcosa Rocco ha pure insegnato, se tre suoi giocatori (Bearzot, Maldini e Trapattoni) sono diventati ct della Nazionale, e ancora lo ringraziano per avergli segnato la carriera: la centralità dell'uomo o meglio l'uomo che è più importante del calciatore. Metteva alla frusta i giovani, imparassero in fretta a maturare altrimenti ciao, ricaricava gli anziani ("Te jèri campion, no ti pol finir bidòn") ed era abilissimo, in una continua commedia dell'arte, a far salire o scendere la tensione, a seconda delle necessità. Gli piacevano i giocolieri, Rivera fin dalla prima apparizione, ma dovevano essere bilanciati dal "distudaferài", ossia spegnilampioni, il cursore-marcatore.
Cinque anni fa a Trieste c'era una commemorazione di Rocco con tanti suoi ex giocatori e simpatizzanti (Ottavio Bianchi, Giacomini, Galeone, Bigon, Enzo Ferrari). Mi presentarono Zanon, capitano di quel Padova. "Piacere". Forte stretta di mano. Poi Zanon si guarda la destra e fa: "Con questa ho strizzato i coglioni a Gabetto, al primo corner per il Toro". Erano anni così. Anche dopo: con l'Estudiantes, partita-combattimento. Maldera marca troppo largo il suo uomo. "Staghe vizìn, sempio" urla Rocco. Maldera s'avvicina alla panchina: non posso, signor Rocco, ogni volta mi punge. Il suo uomo, Morero, aveva un ago, e se ne serviva come delle spine di cactus, in un racconto di Soriano, il centravanti Orlando detto "el Sucio". Erano anni romantici e romanzeschi, in cui, per non tradire una stretta di mano con Pianelli, Rocco lasciò il Milan campione d'Europa a Wembley e passò al Torino. Erano anni in cui davvero buongiorno voleva dire buongiorno. E mi raccomando, nel ricordo di Nereo Rocco, non fiori ma bicchieri di vino rosso.




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Nereo Rocco prima di morire, "Ragazzi non mollate, lo scudetto è vicino", febbraio 1979
(Archivio "Gazzetta dello Sport")






L'ultima immagine di Nereo Rocco sul letto dell'ospedale di Trieste, febbraio 1979
(Archivio "Gazzetta dello Sport")



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Due anni fa il Pàron diceva addio
(dal "Corriere dello Sport" del 19 febbraio 1981)