Dal sito www.libreriadellosport.it
Prefazione di Franz Di Cioccio
Casciavit, cacciaviti: così vengono soprannominati a Milano i tifosi milanisti, per sottolinearne la genuina estrazione popolare. E negli ultimi anni, diventare un casciavit è stato abbastanza facile. Coppe e scudetti si sono alternati con frequenza e hanno saziato anche chi – nel passato più remoto – ha vissuto digiuni prolungati e delusioni cocenti.
Ma se tifare Milan può, almeno oggi, essere abbastanza semplice, diventare un perfetto milanista è tutt'altra cosa, un privilegio al quale solo pochi possono accedere. Perché richiede applicazione, consapevolezza, memoria, perfino studio.
Il libro di Davide Grassi si propone di dare a tutto il popolo rossonero - composto anche da simpatizzanti, milanisti della domenica , tifosi tiepidi - questa possibilità. E offre anche l'opportunità - a chi già era convinto di essere un perfetto rossonero - di verificare il livello della sua “fede” per eventualmente colmare le lacune e migliorarsi. Il tutto attraverso una serie di lezioni condotte sul filo dell'ironia (per un milanista l'acronimo doc sta per devi omaggiare Calloni: sì, perfino lui) tra luoghi (un ristorante, una pasticceria, una fiaschetteria, un museo) e personaggi della storia rossonera. Tra i tanti, Nereo Rocco - definito la Grande Anima Rossonera – e Nils Liedholm, dei quali sono raccontati simpatici aneddoti. Ma anche Giovanni Lodetti, Pierino Prati, Fabio Cudicini, Angelo Colombo, Pietro Paolo Virdis, incontrati dall'autore. Senza dimenticare i tifosi vip, a cominciare da Franz Di Cioccio della Pfm, autore della prefazione, fino al grande Enzo Jannacci.
Il libro si propone così come una divertente guida per essere un vero casciavit capace di apprezzare le fantastiche giocate di Gianni Rivera, Marco Van Basten e Kakà, ma anche di ricordare con simpatia la Pantera nera Luther Blissett, famosa per i gol sbagliati a porta vuota, o il Keegan della Brianza Ugo Tosetto, passato alla storia per la sua inutilità.
Insegna inoltre a riconoscere e smascherare i falsi sostenitori del Diavolo, gli opportunisti e i trasformisti dell'ultima ora ai quali viene negata la possibilità di laurearsi in milanologia . Questo libro è la prima, vera e unica Bibbia del tifoso milanista.
Dal sito davidegblog.blogspot.com
Finalmente ci siamo: dopo una lunga attesa (i primi appunti ho iniziato a scriverli nel 2004) è uscito il mio nuovo libro, il primo solo a mia firma dopo La palla è rotonda?, che risale al 2003. Il titolo è Rossoneri - Il manuale del perfetto casciavit. Inizialmente volevo intitolarlo semplicemente Casciavit, ma poi la casa editrice - nel timore che potesse essere un un po' criptico - ha preferito un più immediato Rossoneri.
Si tratta di libro molto "personale", pieno di ricordi e nostalgia, ma anche di aneddoti, ironia e satira. E' talmente personale che anche la foto della copertina è mia (l'ho scattata in occasione dell'ultimo scudetto milanista) così come sono io il bambino ritratto all'interno con la maglia rossonera. Quest'ultima immagine mi è particolarmente cara: è stata scattata, infatti, dal mio indimenticabile papà (che tra l'altro era interista - unico della famiglia - ma poco tifoso e molto sportivo) nel lontano 1969 sulle montagne del Nevegal, in provincia di Belluno, la mia seconda città. Un'ultima nota: la prefazione è di Franz Di Cioccio, grande milanista ma, soprattutto, batterista e front man dei miei musicisti italiani preferiti: la Premiata Forneria Marconi. E ora...buona lettura della scheda di presentazione di Rossoneri - Il manuale del perfetto casciavit.
Casciavit, cacciaviti: così vengono soprannominati a Milano i tifosi milanisti, per sottolinearne la genuina estrazione popolare. E negli ultimi anni, diventare un casciavit è stato abbastanza facile. Coppe e scudetti si sono alternati con frequenza e hanno saziato anche chi – nel passato più remoto – ha vissuto digiuni prolungati e delusioni cocenti. Ma se tifare Milan può, almeno oggi, essere abbastanza semplice, diventare un perfetto milanista è tutt’altra cosa, un privilegio al quale solo pochi possono accedere. Perché richiede applicazione, consapevolezza, memoria, perfino studio.
Il libro di Davide Grassi si propone di dare a tutto il popolo rossonero - composto anche da simpatizzanti, milanisti della domenica, tifosi tiepidi - questa possibilità. E offre anche l’opportunità - a chi già era convinto di essere un perfetto rossonero - di verificare il livello della sua “fede” per eventualmente colmare le lacune e migliorarsi. Il tutto attraverso una serie di lezioni condotte sul filo dell’ironia (per un milanista l’acronimo doc sta per devi omaggiare Calloni: sì, perfino lui) tra luoghi (un ristorante, una pasticceria, una fiaschetteria, un museo) e personaggi della storia rossonera. Tra i tanti, Nereo Rocco - definito la Grande Anima Rossonera – e Nils Liedholm, dei quali sono raccontati simpatici aneddoti. Ma anche Giovanni Lodetti, Pierino Prati, Fabio Cudicini, Angelo Colombo, Pietro Paolo Virdis, incontrati dall’autore. Senza dimenticare i tifosi vip, a cominciare da Franz Di Cioccio della PFM, autore della prefazione, fino al grande Enzo Jannacci.
Il libro si propone così come una divertente guida per essere un vero casciavit capace di apprezzare le fantastiche giocate di Gianni Rivera, Marco Van Basten e Kakà, ma anche di ricordare con simpatia la Pantera nera Luther Blissett, famosa per i gol sbagliati a porta vuota, o il Keegan della Brianza Ugo Tosetto, passato alla storia per la sua inutilità.
Insegna inoltre a riconoscere e smascherare i falsi sostenitori del Diavolo, gli opportunisti e i trasformisti dell’ultima ora ai quali viene negata la possibilità di laurearsi in milanologia. Questo libro è la prima, vera e unica Bibbia del tifoso milanista.
Serie B, Mitropa Cup, Luther Blissett, Egidio Calloni, Ugo Tosetto. Non sono queste, solitamente, le immagini che un milanista ama rievocare della storia rossonera. A farlo ci pensano, invece, gli interisti e gli juventini. Ma un “perfetto casciavit” si distingue da un “semplice” milanista proprio perché non si vergogna - e ricorda anzi quasi con affetto – anche i periodi più bui, che fanno comunque parte della storia del Milan.
E’ stato questo il filo conduttore della presentazione del mio libro Rossoneri – il manuale del perfetto casciavit (Fratelli Frilli Editori) che si è tenuta sabato 17 maggio, al Mondatori Multicenter di via Marghera a Milano. Tra sorrisi e battute, un’ora e mezza è volata via piacevolmente, davanti a volti amici e sconosciuti. Protagonista assoluto dei ricordi il Paròn Nereo Rocco, la Grande Anima Rossonera. Come altre volte, ha divertito molto l'episodio dello sconosciuto francese che un giorno, a Parigi, chiamò così l'allenatore triestino: "Monsieur Rocco, mon ami". Per tutta risposta si sentì dire dal Paròn: "Mona a mi? Mona a ti!".
Al mio fianco, gli inseparabili “gemelli” scrittori Alberto Figliolia (tra l’altro, interista doc) e Mauro Raimondi, che non finirò mai di ringraziare. Tra il pubblico, anche l’amico taxi-driver casciavit Massimo Messia, che ha raccontato di quando una sera entrò in un bar a Rho e riconobbe, nella persona che gli serviva un panino, un volto a lui noto: quello di Gabriello Carotti, ex-giocatore del Milan. Carotti passò alla storia soprattutto per la roboante frase: “Al Milan siamo solo in due a saper giocare a calcio: io e Gianni Rivera”. Non era ovviamente così, ma va bene lo stesso…
Dal sito www.frullieditori.com
Laurea in milanologia
Sono sincero: negli ultimi anni, diventare milanista è stato facile. Le ripetute vittorie hanno fatto acquisire alla squadra rossonera molti tifosi, soprattutto tra le nuove generazioni.
Ma tra essere un milanista e un perfetto milanista la differenza non è così sottile come qualcuno potrebbe pensare. Per diventare un rossonero a tutto tondo bisogna leggere, esercitarsi, capire l’anima della squadra. Prima di ottenere la laurea in milanologia è necessario sapere fino in fondo, quindi, cosa si nasconde dietro quella maglietta a strisce verticali rossonere.
Tanto per iniziare, è indispensabile il rispetto del dna. Ecco perché un rossonero che si rispetti – anche se sommerso da trofei di ogni genere – dovrebbe sempre rimanere umile. I tifosi milanisti sono, infatti, sempre stati denominati “cacciaviti” – casciavit, in dialetto milanese – e questo significa avere un animo popolare e semplice, che li distingue dai bauscia (sbruffoni) interisti e dagli aristocratici gobbi juventini.
Anche mentre si sollevano Coppe dei Campioni e Intercontinentali, il vero casciavit dovrebbe quindi sempre ricordare le sue origini, che affondano le radici nella Milano dei quartieri popolari, laboriosa e generosa, con il coer in man, come si diceva una volta. Chi non ha questa consapevolezza è solo un milanista di facciata, ma non nel profondo.
Per meritarsi l’etichetta di rossonero doc è poi indispensabile conoscere – ed amare – la propria storia, anche quella meno nobile. A chi si vergogna della serie B e della Mitropa Cup dovrebbe essere vietato l’accesso a San Siro. Anzi, il vero milanista deve essere orgoglioso delle partite contro la Cavese e del trofeo della Mitteleuropa cadetta, che a fianco delle Coppe dei Campioni simboleggia le diversi fasi della storia della squadra.
Lo stesso vale per i giocatori. Troppo facile vantarsi solo di Gianni Rivera, Marco Van Basten, Franco Baresi, Kaká. Tutt’altro: nel caso dei veri milanisti l’acronimo doc non sta infatti per denominazione di origine controllata, ma per doveroso omaggiare Calloni. Un vero rossonero conosce e ricorda con simpatia, infatti, anche Egidio Calloni, quello che Gianni Brera definì sciagurato. Il motivo è facile immaginarlo: il buon Egidio si mangiava gol come quei gelati che – in seguito – andò in giro a vendere per la Lombardia.
Calloni mi piaceva perché era un simbolo dell’imperfezione e, quindi, reale, umano. Lo sciagurato Egidio da Busto Arsizio da bambino tifava Inter e da grande, nel 1974, diventò centravanti del Milan.
Quando arrivò in maglia rossonera era reduce da due stagioni al Varese, in serie B, dove aveva segnato 23 gol in 50 partite. Niente male, pensarono i tifosi milanisti. Niente male, pensò lui. Anche per farsi coraggio. San Siro è grande. E fa paura.
L’esordio avvenne il 13 ottobre 1974, contro la Juventus. E il Milan perse subito. Quasi un segno del destino. Eppure nella prima stagione Calloni segnò 11 reti in 26 partite, due in più di Roberto Boninsegna e Pietro Anastasi, che non erano certo gli ultimi arrivati. Era un po’ goffo, sbagliava qualche gol di troppo. Ma, in fondo, la palla la buttava dentro, a volte anche in acrobazia. Perché era coraggioso e non aveva paura di provare la giocata difficile, rischiosa. Come quella volta che segnò all’Olimpico, con una rovesciata strepitosa: Roma 0 – Milan 1. O in Coppa Italia contro il Bologna: stop di petto, tiro al volo di sinistro, rete. E giù tutti ad applaudire Egidio.
L’anno dopo riuscì a ripetersi: 13 reti in 25 partite. Niente male, pensò lui. Ma forse non si rese conto di quanto incidevano gli assist di Gianni Rivera. Errore.
Da quel momento, infatti, per lui iniziò un calvario calcistico. Egidio correva, si impegnava. Ma sbagliava, sbagliava sempre. Anche a porta vuota. La gente fischiava. Lui non disse niente. Ma già ci rimase male quando Rocco, il Paròn, lo chiamò mulo. Che però in triestino significa solo ragazzo.
Calloni andò alla ricerca del gol. Ma si perse. Nella stagione 1976-77, in 29 partite segnò solo cinque reti. Un disastro. Il grande Beppe Viola durante una telecronaca disse: “Occasione per il Milan, ma Calloni la sventa”. Tutti risero. Meno lui.
Ci provò ancora. Le cose, però, andarono male: fu sempre più sciagurato, Egidio. In 21 partite segnò la miseria di due gol. Troppo poco.
Lo mandarono via, a Verona. Dove si tolse la soddisfazione di battere il Milan con le sue reti. Ma la carriera era ormai in declino. E chi lo vide affannarsi lo chiamò di nuovo sciagurato. Girovagò ancora tra Perugia, Palermo, Como. Poi si ritirò. Ma, curioso, tutti lo ricordano.
Il Milan ha avuto centravanti migliori, passati nel dimenticatoio. Lui no. Oggi è ancora famoso, a modo suo. È rimasto nell’immaginario collettivo grazie ai suoi errori. Ed è giusto così. Perché le persone non si ricordano solo per i pregi, ma anche per i difetti. E quelli troppo perfetti non sono mai amati. Al limite, stimati. Ma a nessuno piace raccontarli perché sono noiosi. E perché alla gente non capita mai di sentirsi come Platini o Beckenbauer. Ma come Calloni forse sì.
Lo sciagurato Egidio oggi fa il rappresentante di gelati dalle parti del Lago Maggiore. A chi lo riconosce dice: “Meno male che quando giocavo io non c’era ancora la Gialappa’s Band”. E poi: “Se non avessi sbagliato tanti gol sarei stato probabilmente un fuoriclasse”. E non si capisce se scherza o ci crede veramente. E in quel se c’è tutto il rimpianto di chi ha comunque accarezzato un sogno. Senza però riuscire a farlo proprio.
Nel libro La valigia del centravanti (Limina) di Guy Chiappaventi, così Calloni ha ricordato con simpatia alcuni compagni di squadra del Milan: “Ricky Albertosi era una forza, simpaticissimo. A Milanello c’erano due linee telefoniche. Una era appaltata a lui che doveva giocare ai cavalli. Nessuno poteva usare quel numero. Ricky giocava e fumava come un turco. Si portava il pacchetto di sigarette anche all’allenamento: lo infiliva nel taschino della tuta”. E Benetti? “Grande, Romeo. In una trasferta a Cagliari ci danno un penalty. Io sono il rigorista e vado sul dischetto. Lui viene e cerca di prendermi il pallone. Mi dice: ‘batto io, ho scommesso con un amico che segno’. Io rispondo: ‘sai a me che me ne frega?’. Ce la giochiamo a pari e dispari, senza farci vedere dalle telecamere. Esce dispari. Vinco io, tiro e segno. Ciao, Romeo”.
Calloni era l’esatto opposto di Van Basten, ma di lui non bisogna vergognarsene perché era un generoso, con il coer in man. La capacità di apprezzare anche chi non ce l’ha fatta dovrebbe sempre distinguere i milanisti dagli interisti, che negano perfino l’esistenza di Darko Pancev, o dagli juventini, che arrossiscono solo a nominare Ian Rush. Il rossonero doc no, ricorda con simpatia anche Luther Blissett, simbolo di un – allora – piccolo Milan, che non riusciva a fare gol neanche con la minaccia di una pistola alla tempia. L’anglo-giamaicano, pupillo del cantante Elton John, venne così presto ribattezzato Miss it, che in inglese significa “sbaglialo” (il gol, ovviamente).
Una curiosità: qualche anno dopo le sue malefatte in maglia rossonera, Blissett ebbe comunque la soddisfazione di vedere il suo nome utilizzato come pseudonimo dal cosiddetto Luther Blissett Project, che divenne famoso in tutta Europa per alcune beffe mediatiche. L’obiettivo di questo gruppo era di mostrare i limiti e le manipolazioni del sistema di comunicazione, nel quale è possibile costruire artificiosamente notizie false. Per quale motivo fu scelto di utilizzare il nome di Blissett, però, non si è mai saputo.
Per tornare al calcio, se dai centravanti rossoneri passiamo alle ali, ai fantasisti, il discorso non cambia. Che Roberto Donadoni sia stato un grande nessuno lo può discutere. Ma è troppo semplice ricordarsi solo di lui. Il perfetto milanista deve conoscere, invece, anche la storia di Ugo Tosetto, che arrivò a Milano con il roboante soprannome di Keegan della Brianza (Kevin Keegan era il Pallone d’oro del Liverpool campione d’Europa, nda). Secondo la leggenda, la prima volta che Nereo Rocco lo vide all’opera sbottò così con i suoi collaboratori: “Ciò, dove sta ’sto Keegan della Brianza? Mi vedi solo ’na panocia bionda”. Morale: Rocco aveva già intuito che ad aver fortuna nel Milan sarebbe stato il biondo Ruben Buriani, arrivato in sordina dal Monza con Tosetto ma poi rivelatosi instancabile cursore a centrocampo, invece dell’ala destra, che si perse presto tra malriusciti tentativi di piroette intorno alla palla.
Nonostante le aspettative, Ugo Tosetto da Cittadella, provincia di Padova, fallì infatti clamorosamente. In 22 presenze in serie A con la maglia del Milan non riuscì a segnare neanche una rete. L’unico gol lo fece in Coppa delle Coppe, contro gli spagnoli del Betis Siviglia. Poco, pochissimo. A distanza di anni, il Keegan della Brianza si è giustificato così alla Gazzetta dello Sport: “A Monza giocavo come pareva a me, dietro gli attaccanti, mi inserivo, suggerivo, tiravo. Al Milan quel ruolo lo ricopriva Rivera e mi dirottarono in fascia. Ma quale Keegan, io ero un dieci...”.
Andato via dal Milan, Tosetto giocò ancora a Monza, Vicenza, Modena, Benevento, Rimini, per poi scivolare tra i dilettanti. Concluse la carriera a ben 43 anni tra gli amatori, dopo essersi rotto un ginocchio nello scontro con un portiere. Cosa fa oggi? “Ora prendo la pensione – ha raccontato alla Gazzetta dello Sport – e vivo a Solbiate Arno, in provincia di Varese, sulla strada per Milanello. Ho una casa con un po’ di terra e mi diverto a fare il contadino. Allevo anatre e galline, curo un frutteto: kiwi, ciliegie, pere e mele. Poi faccio legna nei boschi del suocero e mia moglie gestisce una cartoleria-bigiotteria a Tradate. Abbiamo tre figli e siamo già nonni di Niccolò. Allenavo i ragazzi della Solbiatese, ma mi sono rotto le scatole dei genitori invadenti, che tormentano gli allenatori perché non fanno giocare i loro fanciulli scarsi coi piedi. Viva la campagna, che rende liberi”.
Bidoni a parte, personalmente – pur professandomi un milanista di stretto culto riveriano (e chi discute il Golden boy, peste lo colga) – ho sempre avuto una passione per le seconde file, per quei giocatori che con il tempo passano nel dimenticatoio e rimangono nella memoria solo dei cultori, dei veri appassionati, dei tifosi che ricordano anche i dettagli, i particolari.
Ripensandoci, questa passione (o perversione, fate voi) l’ho sviluppata forse proprio perché sono riveriano. Mi spiego meglio: considero Rivera superiore a tutti i giocatori che hanno indossato la maglia rossonera, prima e dopo di lui. Di conseguenza, dopo aver visto la luce, preferisco dedicarmi a chi ha vissuto e lavorato nel buio, lontano dai riflettori, per poi passare nel dimenticatoio.
Ecco così riemergere dalle nebbie della memoria personaggi persi nella notte dei tempi. Chi si ricorda, ad esempio, di Giulio Zignoli, detto il Prete per la sua fede fervente? Pochi, quasi nessuno. Eppure giocò ben cinque stagioni nel Milan degli anni Settanta. Era un terzino fluidificante di cui ho ancora chiare le sgroppate sulla fascia e i calzettoni arrotolati, alla Pierino Prati. Me lo ricordo bene.
Altro esempio: Roberto Antonelli, detto Dustin, per la somiglianza con l’attore americano Dustin Hoffman. Quando si rievoca il Milan della Stella tutti pensano all’ultima annata – pregiata e dispensata con parsimonia – del mio idolo Rivera. Oppure ai gol di Aldo Maldera e alle parate di Ricky Albertosi. Ma lui, Dustin, fece una stagione incredibile. Prendeva la palla e poi verticalizzava il gioco, come si usa dire – in modo orrendo – oggi.
E quanti milanisti sanno oggi chi è Stefano Cuoghi? Centrocampista, era soprannominato Bombardino e con la maglia rossonera calcò i duri campi della serie B.
Come anche Vinicio Verza – per il quale avevo una vera adorazione – una mezzala scaricata troppo presto dalla Juventus che venne invece apprezzata a Milano.
E ancora: Joe Jordan, lo Squalo scozzese, che quando giocava si toglieva gli incisivi per esibire un sorriso terrificante. Squalo in campo, ma gentiluomo fuori. Avrebbe potuto recitare nel film di Ken Loach che porta proprio il suo nome: My name is Joe. Sarebbe stato perfetto nella parte dell’allenatore che tenta di allontanare gli amici dalla droga e dal disagio sociale insegnando come si colpisce la palla di testa.
E a qualcuno dice qualcosa il nome di Antonio Rigamonti? Era il portiere di riserva del Milan della Stella e non giocava quasi mai. Alto e magro, aveva due baffi che lo avrebbero reso perfetto per uno spaghetti western di Sergio Leone. Nel suo piccolo diventò famoso perché, quando ancora giocava nel Como, tirava i rigori. E in quel modo segnò anche tre reti. Ancora oggi è secondo nella classifica dei portieri-cannonieri italiani: meglio di lui ha fatto solo Sentimenti IV, con otto gol.
Potrei continuare a lungo a elencare giocatori, come vini d’annata. Una volta passai una bellissima serata con un amico casciavit a ricordare milanisti di secondo (e a volte anche terzo) piano persi nella notte dei tempi. Un passatempo che consiglio anche ai tifosi di altre squadre. In quell’occasione uscirono nomi incredibili: Zazzaro, Golin, Minoia, Dolci, Casone, Paina, Silva, Galluzzo, Mancuso, Carotti, Macina, Vincenzi, Chiodi, Mandressi, Gaudino.
Questi nomi sono musica per le mie orecchie. Profumo di figurine Panini.
E chissà cosa fanno ora nella vita, quei carneadi. Magari hanno aperto una tabaccheria oppure un negozio di articoli sportivi. Hanno avuto poca fama e sono poi entrati nell’oblio. Nessuno si ricorda più di loro, nessuno li va a cercare per un’intervista o gli chiede di commentare in televisione le partite.
Lancio un appello: si facciano vivi, mi contattino. Voglio sapere dove sono, cosa gli è rimasto ancora addosso della maglia rossonera.
Di uno ho avuto indirettamente notizie tramite Massimo, un amico rossonero che fa il tassista (non a caso, Gianni Brera una volta definì il Milan “la squadra dei tassisti”) e ogni tanto carica anche calciatori e dirigenti del mondo del pallone. Lui di cognome si chiama Messia; chissà, forse in onore di Gianni Rivera...
Una sera il Taxi driver casciavit entrò in un locale e si fece preparare un panino. Quando vide in volto chi si stava impegnando nella farcitura trasecolò e gli chiese a bruciapelo: “Ma tu sei Carotti, l’ex giocatore del Milan?”. Sì, era lui, lo stesso che qualche anno prima aveva dichiarato: “Al Milan ci sono solo due giocatori che sanno giocare a calcio: io e Rivera”.
Presunzione giovanile? Mancanza di senso della misura? Anche. Ma mi piace pensare che Carotti volle solo provare per un momento la sensazione, l’ebbrezza di paragonarsi al miglior giocatore italiano del dopoguerra.
Lui, giocatore più da Ascoli che da Milan, in cuor suo sapeva di spararla grossa, di essere lontano anni luce non solo dal Golden boy, ma anche da un Bigon qualsiasi. Però la disse quella frase, per vedere i titoli sui giornali con il suo cognome a fianco di Rivera. Fece una battuta alla Muhammad Alì, pur sapendo di essere solo un pugile appena dignitoso, che non sarebbe passato alla storia.
Così, senza pensarci troppo. Realizzò, almeno per pochi minuti, il suo sogno giovanile: “Certo, solo io e Rivera. Chiaro?”.
Carpe diem.
Più fortuna di Carotti ebbe l’inglese Mark Hateley. Attila, come venne presto soprannominato dai tifosi, arrivò a Milano e fece subito sfracelli, con una rete storica a Walter Zenga in un derby dei primi anni Ottanta. Ma altrettanto presto finì anche per rompersi il menisco e giocare poco, per poi perdere quasi completamente la confidenza con il gol nella sua ultima stagione in rossonero. Oggi Attila, che è stato inserito nella Hall of fame dei Rangers, è una sorta di “ambasciatore” del club di Glasgow e commenta le partite del campionato scozzese per televisioni e giornali.
E Stefano Chiodi, centravanti del decimo scudetto? Proveniente dal Bologna, sbagliava gol a porta vuota (ne ricordo uno clamoroso a San Siro contro il Manchester City) e segnava solo su rigore. Tirava dal dischetto sempre nello stesso modo, senza tanti fronzoli: una stangata decisa e chi si è visto si è visto. Secondo Liedholm, era utile per la sua capacità di “movimento”, che apriva gli spazi alle incursioni di Aldo Maldera e Albertino Bigon. In realtà, i suoi ripetuti errori (per tacere del coinvolgimento nello scandalo delle scommesse) diedero un nuovo senso alla classica frase “roba da Chiodi”. Oggi Stee-faa-nooo, come lo incitava la curva, ha perso del tutto la lunga chioma da rockstar dell’epoca. Ha un bar, un albergo con ristorante e una pizzeria a Budrio, in provincia di Bologna. Insomma, non se la passa affatto male.
Nel libro La valigia del centravanti (Limina) di Guy Chiappaventi, ha spiegato: “La famiglia per me è la cosa più importante. C’entra anche questo mio sentimento con la decisione di restare fuori dal calcio”. E così ha poi ricordato il primo giorno in rossonero, nella sede in via Turati: “Andai nella stanza del direttore sportivo, era Sandro Vitali. Dietro la sua scrivania c’era un quadro con lo stadio di San Siro. Vitali mi disse: ‘Sei venuto a discutere il tuo contratto? Ma non lo sai che per fare una partita lì dentro dovresti pagare tu?’ Non dico che aveva ragione, il calcio è un lavoro, ma c’era andato vicino. La sensazione dello scudetto è stata impagabile. Ero un ragazzino, lì per lì non riuscii neanche a capire bene quello che avevamo fatto. A quell’età le cose ti sbattono addosso e tu non sei preparato. Il vero senso della nostra impresa l’ho compreso soltanto dopo”. E oggi? “Gli affari vanno bene e i clienti ci sono sempre. Soprattutto la domenica e soprattutto se il Milan perde: vengono a farmi la festa...”.
Qualche anno dopo Chiodi, nell’attacco del Milan giocò – spesso in coppia con Blissett – un altro giocatore ormai ricordato da pochi: Beppe Incocciati. Che in seguito indossò anche le maglie di Ascoli, Pisa, Empoli, Atalanta, Bologna e Napoli. Giocatore tecnico ma leggerino e con poca confidenza con il gol, una volta appese le scarpe al chiodo si è messo in politica ed è diventato assessore allo Sport di Fiuggi. È però ancora legato al Milan: gestisce, infatti, una scuola calcio per la società rossonera e ricorda con piacere il periodo milanese, anche se i suoi furono anni da povero Diavolo.
Se si va a curiosare nel suo sito Internet, si trova una presentazione roboante: “Gioca con o contro i più grandi campioni mai esistiti: Pelé, Cruijff, Rivera, Falcão, Platini, Zico, Maradona”. Poi, allargandosi un po’, aggiunge: “Rischia di essere convocato nella Nazionale maggiore nell’anno 1982, quando fu campione del mondo”. Non mi risulta sia vero (da quella Nazionale fu escluso perfino Evaristo Beccalossi, talento molto più quotato di lui), ma pazienza.
Carneadi e vecchie glorie a parte, quel che deve essere chiaro, in questa prima lezione, è che un milanista senza un’anima casciavit è indegno di essere un rossonero. Purtroppo – è vero – qualcuno esiste, anche famoso. Ma questo non li giustifica affatto. Il mio libro, anzi, è nato proprio per convertire (o ripudiare) anche loro, una volta per tutte.
Aggiungo – e ne sono convinto – che farsi belli con Van Basten senza conoscere Blissett è da tifosi dilettanti, da milanisti pivelli. Ricordare Milan-Barcellona quattro a zero vergognandosi di Milan-Cavese è addirittura riprovevole, volgare. Conoscere la Coppa Intercontinentale e ignorare la Mitropa Cup è da prima elementare della scuola milanista.
Detto questo, chi vuole la laurea in milanologia mi segua; gli altri continuino pure ad andare allo stadio e a fingere di tifare per il Diavolo.
Ma non potranno mai essere dei perfetti milanisti.
Dal sito davidegblog.blogspot.com
La foto di davide bambino nell'interno di copertina è stata scattata da suo padre Paolo Grassi nel 1969 al Nevegal (Belluno)
(nella foto, davideG e Franz Di Cioccio prima di un concerto della PFM, nel 2001, a Legnano)
Sono cresciuto ascoltando dischi come Storia di un minuto, Chocolate Kings, Live in USA. Quando ero giovane (ormai, ahimè, posso usare anch'io questa frase...) avevo in camera il poster di Gianni Rivera a fianco di quello dei miei musicisti italiani preferiti: la PFM. Ho sempre considerato Franz Di Cioccio un grande batterista e un grande...milanista. Con queste premesse, quando ho terminato di scrivere Rossoneri mi è così venuto subito spontaneo pensare a Franz per la prefazione. Sono stato accontentato e il risultato, che potete leggere qui sotto, è degno delle sue migliori rullate...
Prefazione a Rossoneri di Franz Di Cioccio
Essere milanisti è un fatto biologico, come mangiare, quindi…non si può morire di fame. Allora ben venga la coppa numero sette che ci sazia, almeno per un po’. Quando Davide mi chiese di partecipare a questo libro, la Coppa Campioni era in corso e i titoli sui quotidiani erano lusinghieri. Ci chiamavano “Maestri d’Europa” o, con un altro titolone, “Questa squadra possiede la scienza della Champions”. Tutto ciò era molto gasante, però mi convincevo che sarebbe stato meglio essere cauti e non cantare vittoria anzitempo. Meglio aspettare e soffrire fino all’ultimo minuto dell’ultima gara, perché la sfiga è sempre in agguato. Non sapevo come sarebbe andata, ma di una cosa ero contento: stavo rivedendo il Milan che piace, quello che fa soffrire, quello che… non sai mai come va a finire. E’andata bene. Battuti avversari e ogni sfiga anche se, come gioco, la finale non è stata memorabile. Il secondo gol di Pippo Inzaghi però vale la Coppa. Qualche mese dopo è arrivato anche il titolo mondiale per club.
Eh sì, è bello essere rossoneri. Una voglia che non mi passa dal 1950. Faccio un passo indietro e vi racconto come sono diventato milanista. Te set un casciavit! Così mi apostrofavano nel cortile del palazzo dove abitavo da ragazzo nei pressi dello stadio Meazza. Io, nato a Pratola Peligna, paesino in provincia di Aquila, ero giunto a Milano da poco tempo e non capivo il significato di quella parola. Non avevo dimestichezza con il dialetto meneghino. Al mio orecchio suonava molto musicale, scivolava bene quando rimbalzava da un balcone all’altro del casermone dove abitavo. Gli epiteti abruzzesi irripetibili si stemperavano a meraviglia con i vusa no e i co de legn nei battibecchi da un balcone all’altro. Proprio un bel suono lo slang milanese ma, quanto al significato delle parole, avevo ancora molto da lavorarci.
Nel mio Bronx, poco lontano da San Siro, dovevo fare i conti con molte cose sconosciute. I miei genitori erano entrambi sarti e il mio abbigliamento era, di conseguenza, più in linea con la praticità che con la moda. Secondo mia madre, una camicia rossa e un paio di pantaloni neri, ad esempio, erano funzionali per un ragazzo esuberante e scavezzacollo che si arrampicava sugli alberi e saltava i muri di cinta. Mi sono ritrovato addosso i colori rossoneri, ma in modo del tutto casuale. Te set un casciavit, mi gridavano mentre passavo per il quartiere, e io pensavo fosse il solito dileggio. Quel termine divenne per me una specie di emblema, un segno distintivo.
Ma il tifo è una cosa seria e lo scoprii presto. Tra “gobbi zebrati” e interisti bauscia mi accorsi subito che avevo intorno un ambiente non proprio amico. La mia vicina di casa, assidua ascoltatrice delle frequenze del gazzettino padano, mi venne in soccorso: mi prese da parte e mi disse Venn’ chi un mument, ciciarem un cicinin. Mi tradusse il vocabolo meneghino alieno e mi spiegò l’arcano calcistico che si celava dietro la magica parola. Realizzai che casciavit non era un’offesa ma, anzi, un segno di appartenenza. Di fatto, con il mio abbigliamento ero stato mandato direttamente nel girone dei diavoli, quelli rossoneri. Ed eccomi milanista per caso con un futuro “infernale” davanti. Il mio tifo? Tutto il resto lo ha fatto la squadra: Rocco, Liedholm, Rivera, Van Basten, Sacchi, Lodetti, Maldini, Ancelotti (il vero erede di Nereo). Non c’è bisogno di fare tutta la lista. Oggi mi sento appagato del mio milanismo. E allora…ma vieniiiiiiiiiiiii, come dice il mio amico Teo Teocoli.
Grazie a tutti i rossoneri di ieri, oggi e perché no, anche a quelli di domani. Quando un anno parte male e si raddrizza con una Coppa dei Campioni e una Coppa del Mondo per Club vale la pena essere dei casciavit.
sabato 12 aprile 2008
Una serata casciavit
Serata molto casciavit, sabato 12 aprile, all’Associazione Culturale Renzo Cortina. Qui, infatti, ho presentato il mio nuovo libro Rossoneri (Frilli Editore). All’incontro hanno partecipato anche Onorato Arisi (direttore del Museo Milan Inter di San Siro) e Attilio Maldera, uno dei tre fratelli della sua famiglia ad aver indossato la maglia del Milan (personalmente ho un ricordo molto vivo di Aldo, terzinone-goleador nell’anno della Stella).
Maldera ha spiegato, tra l’altro, il pregevole lavoro che svolge insieme alla moglie psico-pedagoga per educare i più giovani ai valori dello sport. Ha poi ricordato alcuni episodi di quando era calciatore: “Allora era tutto diverso: io, come anche i miei fratelli, giocavamo a calcio perché sentivamo ‘dentro’ di noi la passione e avevamo molto attaccamento alla maglia. Tra noi c’era amicizia e i giovani avevano una specie di compagno di squadra tutor, che nel mio caso fu Schnellinger. Oggi, invece, tutto è mercificato e il calcio è diventato un fenomeno esasperato in cui mi riconosco sempre meno. Mi colpisce inoltre il fatto che, quando li sento parlare, i giocatori di oggi sembrano quasi tristi: eppure hanno avuto tutto dalla vita…”.
Da parte mia, ho raccontato, tra l'altro, alcuni aneddoti sulla squadra rossonera. Ad esempio, di quando il fondatore della squadra, l’inglese Herbert Kilpin, offriva ai suoi giocatori del whisky prima e dopo la partita, convinto che desse più energia e facilitasse il recupero degli sforzi. O di quando Gunnar Nordhal, centravanti degli anni Cinquanta, dotato di grande potenza e forza fisica, fece involontariamente male a un portiere avversario e fu dispiaciuto al punto da piangere e rimanere sconvolto per il resto della partita. Davvero altri tempi…
Nel mio intervento ho ricordato anche alcuni giocatori minori della storia del Milan come il centravanti Egidio Calloni, famoso per i suoi errori sotto porta, che venne soprannominato da Gianni Brera Lo sciagurato Egidio. E’ poi passata alla storia una telecronaca di Beppe Viola in cui il giornalista commentò così l’ennesimo gol sbagliato: “Occasione per il Milan, ma Calloni la sventa”.
Un ringraziamento casciavit a tutti coloro – amici e non – che sono intervenuti alla presentazione di sabato e un arrivederci a presto.
(nella foto, davideG e Attilio Maldera, ex-giocatore del Milan)
venerdì 29 agosto 2008
Capitano, mio capitano
Il campionato sta per iniziare e anche quest'anno il capitano del Milan sarà l'inossidabile Paolo Maldini, una delle ultime "bandiere" del calcio moderno. Ma ripercorriamo la storia dei capitani rossoneri con questo racconto scritto a quattro mani dal duo Raimondi-Meyer, che ringrazio per il contributo al blog.
Capitano, mio capitano. Sei tu, che la squadra cerca con gli occhi quando si trova in difficoltà e sembra sul punto di affondare. Sei tu, che inciti all’assalto quando c’è da assediare, che predichi calma quando bisogna pazientare. Sei tu, che quando si subisce una dubbia punizione, vai a parlamentare con l’arbitro. Non tanto per fargli cambiare idea, ma per condizionarlo la prossima volta che dovrà prendere una decisione difficile.
Tra gli indimenticabili capitani rossoneri bisogna partire da Nils Liedholm, componente fondamentale del fantastico Gre-No-Li nonché protagonista di quel Milan edizione 1951 che riportò sulla sponda rossonera del Naviglio uno scudetto che mancava da 44 anni. Un vero signore, lo svedese, in campo e fuori. Correttissimo, preciso, e la Leggenda narra che quel giorno in cui sbagliò un passaggio, tutto San Siro si levò in piedi ad applaudire: in tanti anni, non era mai accaduto.
Il Milan fu la sua unica squadra e qui chiuse la carriera a 39 anni. Dal 1949 al 1961 vinse 4 scudetti (meno di quelli che avrebbe potuto vincere), conquistando un posto nel Paradiso Rossonero esattamente come il suo successore, Cesare Maldini. Di lui, adesso, si ricordano soprattutto le spassose imitazioni di Teo Teocoli (che l’hanno fatto infuriare, pare). In realtà, Maldini Pater fu un altro milanista d.o.c. e la sua bravura era tale da fargli perdonare le amnesie che ogni tanto lo prendevano (soprannominate, appunto, maldinate). L’immagine che lo ritrae sollevare la Coppa Campioni a Wembley, fascia rossa su maglia bianca, è una delle più belle della storia milanista. Per la prima volta una squadra italiana vinceva la Coppa dei Campioni, e quella squadra, ovviamente, era il Milan. Il suo capitano, Cesare Maldini.
Il quale, nel 1966, si trasferì al Torino lasciando la carica a colui che noi, ultra quarantenni, consideriamo il capitano milanista per eccellenza: Gianni Rivera. Già, iniziava il campionato 1966-67 e il Gianni s’impadroniva della fascia bianca: l’avrebbe mantenuta per 13 anni, fino alla Stella del 1979. Quasi ininterrottamente, tranne durante una breve parentesi che lo vide abbandonare i campi di calcio in attesa dell’esito della battaglia (poi vinta) intrapresa contro il presidente Buticchi, che voleva, forse, venderlo. Correva il 1975-76, e solo per 14 volte, quella stagione, Rivera entrò in campo: nelle altre, il ruolo di capitano toccò a Romeo Benetti. Il quale, Leggenda narra (vista la mancanza di poesia del calcio attuale, è a Lei che ci dobbiamo attaccare!) che non gliela restituisse molto volentieri, così da pagare la sua ribellione con la cessione alla Juventus in cambio di Fabio Capello.
Altri tempi, archeofootball, ormai. Ma per i tifosi bambini che eravamo allora, la fascia bianca era inequivocabilmente attaccata alla maglia numero 10 di Gianni Rivera, tanto da esserne tutt’uno. Del resto, con quella casacca Rivera disputò 658 partite ufficiali di cui 501 in campionato, segnando 164 reti e vincendo 3 scudetti (pure lui meno di quanto avrebbe meritato), 2 Coppe dei Campioni, 1 Intercontinentale e il “Pallone d’oro” nel 1969, primo italiano in assoluto ad aggiudicarselo.
Impossibile, parlare di Rivera in queste poche righe, del suo calcio sopraffino, delle sue polemiche con Gianni Brera che lo riteneva un mezzo giocatore (perché non correva) e delle sue battaglie contro gli arbitri che gli costarono parecchie squalifiche. Su di lui sono stati scritti interi libri, tra i quali vi raccomandiamo “Nato a Betlemme” di Andrea Maietti (Ed. Limina): un titolo che spiega adeguatamente, ai più giovani, la grandezza di quello che molti considerano il migliore giocatore italiano del dopoguerra.
Rivera lasciò da campione d’Italia, e l’anno successivo si aprì la lotta per l’investitura. Inizialmente vinta da Albertino Bigon che, tuttavia, alla fine del torneo 1979-80 si ritirò lasciando libero il trono. Su cui si alternarono, nei tristi anni rossoneri che seguirono, Buriani, Battistini, addirittura quel Collovati che poi avrebbe “tradito” la causa milanista trasferendosi all’Inter (in quei tempi di calcio in bianco e nero, passare dall’altra parte veniva considerata una vera infamia).
Un trono vacante, insomma, fino a quando non spuntò lui, il Piscinin, Kaiser Franz, Highlander l’immortale. Franco Baresi, appunto. Esordio quando ancora c’era Rivera, nel 1977; addio al popolo rossonero al termine della stagione 1997. E uno slogan, “Il capitano, c’è solo il capitano”, che molti di noi hanno ancora nelle orecchie. Un vero eroe (anche per l’infanzia travagliata), a tal punto che nel Milan nessuno ha mai più rivestito né rivestirà la maglia numero 6. Esattamente come i tricolori conquistati da Baresi, a cui vanno aggiunte 3 Coppe Campioni e 2 Intercontinentali: 712 partite ufficiali giocate, di cui 532 in campionato. Un altro Rivera, insomma. E l’ennesimo capitano fuoriclasse, come l’attuale, Paolo Maldini, destinato a battere ogni primato rossonero. Di lui basti ricordare il tempo intercorso tra la prima e l’ultima Coppa Campioni: 24 maggio 1989 Milan-Steaua 4-0, 23 maggio 2007 Milan-Liverpool 2-1. Un grande. Anche se, a dir la verità, adesso come adesso è un capitano più in pectore che reale, viste le numerose assenze. Ma non importa: per quest’anno, comunque vada e chiunque ce l’abbia, la fascia sarà sua. E per la prossima stagione, si vedrà. Di certo, i degni successori non mancano.
(nella foto in alto un giovanissimo Gianni Rivera, "il capitano" per eccellenza, insieme a mio nonno Giuseppe Trevisson).
Pubblicato da davideG
Eravamo in Centomila (Fratelli Frilli Editori), il nuovo libro dedicato ai derby milanesi che ho scritto insieme ad Alberto Figliolia e Mauro Raimondi (un trio ormai più collaudato di Emerson Lake & Palmer…) non è ancora arrivato in libreria, ma già iniziano a uscire le prime recensioni. La prima è di oggi, sul quotidiano Avvenire. Buona lettura…
Pubblicato da davideG
Ciao Pedro
Mentre scrivevo Rossoneri – Il manuale del perfetto casciavit, ero alla ricerca di fotografie del Milan da pubblicare nel libro. Ne parlai con Donatella Evangelista, che mi mise in contatto con Fabrizio Pedretti, detto Pedro. Lui fu gentilissimo e mi inviò una selezione del suo archivio fotografico, senza voler nulla in cambio. In seguito, per contenere i costi della stampa, la casa editrice decise però di rinunciare alle fotografie. E per la copertina optò per una foto scattata dal sottoscritto. Mi dispiacque per Pedro, che comunque ringraziai per la disponibilità. Oggi purtroppo Pedro non c’è più, ma dove si trova ora sono convinto potrà continuare a scattare fotografie ancora più belle di prima.
Ironia della sorte, proprio in questi giorni esce la ristampa del libro Tifosa e basta - C'era una volta? (Sedizioni), il primo romanzo autobiografico sul tifo calcistico di una donna: Donatella Evangelista. Come scrive Sergio Giuntini nella prefazione esiste, eccome, una “via milanista alla letteratura”. Purtroppo, però, la soddisfazione di Donatella per questo libro è stata presto spenta dalla notizia della scomparsa di Pedro. Per ricordarlo, il modo migliore mi è sembrato pubblicare nel blog una sua foto scattata nel giorno dell’addio al calcio di Franco Baresi.
Ogni addio porta con sé, inevitabilmente, una vena di tristezza…
Pubblicato da davideG
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