Dal sito www.robertoperrone.it
di Roberto Perrone
STORIA DI WALTER
Walter Bianchi potrebbe portarsi dietro la cartella clinica con il disegno del corpo umano pieno di circoletti rossi: «Mi sono rotto tutto, dalla testa in giù. Quando sono arrivato alla caviglia, mi sono rotto pure i coglioni». E' l'unica espressione fuori ordinanza che gli scappa, perché Walter, a parte qualche chilo di più - come tutti, ahinoi, come si fa davanti a queste tagliatelle al tartufo? - si porta appresso solo il peso, gentile e sopportabile, soprattutto per chi lo incontra, della sua umanità per nulla volgare. Preciso ai tempi in cui arrivò al Milan con Mussi e Bortolazzi, al seguito di Arrigo Sacchi. Giocò poco, per la pubalgia, un infortunio al ginocchio e la presenza di Paolo Maldini, ma può dire di aver vinto uno scudetto (tre presenze nel campionato 1987-88) e una Coppa dei Campioni (1989). «Due partite, con un gol all'Ascoli nel 1988-89. Ma per tutti, a parte "Tuttosport", risulta autorete di Pazzagli».
E' sempre uguale a se stesso e fedele ai suoi valori, gli acciacchi della vita lasciati qualche chilometro più giù di questo angolo della valle del Burano, terra di lupi e di tartufi, al confine tra le Marche e l'Umbria. «E' il paese di mia moglie Anna Lea». Il suo viaggio è cominciato ad Aarau, in Svizzera, nel 1963, e continua qui dove, una volta d'inverno, raccontano gli anziani, la neve «era alta così e per uscire di casa dovevi nuotarci dentro». In mezzo, una carriera calcistica cominciata nelle giovanili del Cesena e finita nel Verona. I suoi record: 10 interventi chirurgici (e un coma) in 12 anni; nove anni con Arrigo Sacchi, di cui due al Milan.
Papà Aldo, muratore veniva da Montescudo, mamma Rosetta è di Parma. «Mio nonno paterno, Dino Loffi, è stato partigiano». Orgoglio emiliano-romagnolo. Si andava in Svizzera per avere un futuro e Walter nacque là. Poi, quando aveva quattro anni, la famiglia si stabilì a Rimini. «Mio padre morì: io e i miei fratelli, Massimo e Ivan, eravamo ancora piccoli. Mia madre faceva tre lavori per non farci mancare niente: bidella, stiratrice; la notte lavava i pentoloni in un albergo». Walter attacca il pallone. Ala sinistra, esterno sinistro di centrocampo, infine terzino sinistro. «Il lavoro, grazie all'esempio di mia madre, non mi ha mai spaventato. Ho fatto il barista per un paio d'anni». A quindici anni e mezzo, quand'era nelle giovanili del Cesena, entrò nello spogliatoio un giovane allenatore. Nello sguardo già l'idea di un calcio eretico: Arrigo Sacchi. «Quando tornai a casa dissi a mio fratello: oggi ho conosciuto uno che per me arriva in serie A». Ci arrivarono insieme. Milano, 1987. «Berlusconi si presentò e disse: il mio obbiettivo è far parlare del Milan nel mondo». Leggenda: Bianchi doveva prendere il posto di Maldini, Mussi di Tassotti. «Sapevo che sarebbe stato impossibile togliere la maglia a un giocatore più giovane di me come Maldini. Forse Arrigo pensava di più a Mussi al posto di Tassotti, ma poi si è ricreduto. Io sognavo la serie A ed ero felice così. Ho solo un grande rammarico, non essermi potuto allenare a lungo con questi grandi campioni. Ero sempre da solo, oppure con qualche compagno. Il primo anno stavo spesso in palestra con Van Basten».
Cronaca: la riluttanza dei veterani di fronte ai metodi sacchiani. «Beh, inizialmente un po' di diffidenza c'era. Baresi e Virdis li ho visti perplessi. Dopo i primi giorni di ritiro mi chiedevano: ma come hai fatto a stare con questo per sette anni? Io rispondevo: se ho resistito vuol dire che le cose andavano bene, con lui ho sempre vinto. Però, una volta capito il metodo, si sono adeguati. Virdis fece gol nel derby con l'Inter andando a conquistare la palla in pressing su Passarella. Abbiamo fatto calcio nel miglior modo possibile. E quando, un anno dopo, subito dopo aver vinto a Belgrado, in Coppa dei Campioni, Berlusconi incontrò i giocatori e chiese se era il caso di continuare con Sacchi, tutti risposero "sì"».
Walter, però, si è trovato bene con tutti gli allenatori che ha avuto. «Sono stato due anni con Fascetti che la pensava, sul calcio, in modo diversissimo. Il compito di un giocatore è cercare di dare il massimo per quello che gli si chiede. Il calcio è un gioco di squadra». Se n'è andato dal Milan nel 1989 per poi tornare, per lo spazio di un'estate, due anni dopo. «C'era Capello. Il ciclo di Sacchi era finito. Arrigo non poteva tirare fuori più nulla da quel gruppo». La storia con Van Basten? «Secondo me risale al 1988. Marco, nell'anno dello scudetto, aveva giocato poco: pensavano di cederlo al Barcellona per avere Lineker. Poi l'Olanda vinse l'Europeo e Van Basten fu straordinario. Fecero retromarcia. Lui ci rimase male, ritornò diffidente. Se Sacchi diceva una cosa, lui ne diceva un'altra». Ha vinto uno scudetto, ma quello dell'esistenza lo ha conquistato fuori dal campo, il 28 luglio del 1992.
A Cles, sede del ritiro del Verona, un pulmino guidato da Piero Fanna, con alcuni giocatori a bordo, si scontra con un buldozer che ha invaso la strada. Walter, ferito gravemente alla testa, viene ricoverato a Verona e sottoposto a un delicata operazione. Esce dal coma dopo tre giorni. Ricomincia. «In quella stagione ho fatto 14 partite. A ogni infortunio impiegavo sempre di meno a guarire. Un fatto personale col destino: volevo batterlo. Però, un po' di quell'entusiasmo, col tempo, se n'è andato». Così, nel 1994, molla. Un passaggio tra i dilettanti, ma breve, per via di comportamenti cialtroni. Un'esperienza come dipendente di una concessionaria a Rimini. Infine a Cantiano. «Qui sto bene, qualche volta vado a tartufi. Faccio il vice di Maurizio Severini alla Cagliese, dilettanti, ho il patentino di seconda categoria. Certo, vorrei una panchina, magari più in su. Chissà. Soldi? Ho cominciato con 700 mila lire, ho finito con 300 milioni. Ho investito nel mattone, niente di clamoroso. Non li ho buttati via prima e non lo faccio adesso: ho cambiato l'auto dopo sette anni. Non mi faccio mancare nulla, ho una splendida moglie e due bellissimi figli». Rimpianti, tra un tartufo e l'altro? «Ho fatto il massimo per quello che potevo dare. Piuttosto un rimorso: il fumo. Ti toglie qualcosa, ma con tutti gli infortuni che ho avuto era inevitabile affidarsi alle sigarette». Con tutte le botte prese, sul ring, dal destino, conserva ancora un bel sorriso sulla vita. E' convinto, in fondo, che il mondo non sia male. «Beh, se c'è una cosa che ho imparato, è che in Italia gli sfigati godono di buona stampa». Solo se sono capaci di auto-ironia, per quello che ci riguarda. (apparso sul "Corriere della Sera") |